La morte di Enrico Mattei, ha pesantemente influenzato il modo di interpretare la presidenza di Cefis all’ENI: il sospetto che sia egli a nascondersi dietro alla violenta e tragica scomparsa del suo predecessore, ha indotto molti a ritenere che Eugenio Cefis, preso il timone dell’ENI appena dopo la morte del fondatore, abbia voluto ridimensionare e affossare l’azienda di Stato italiana, riducendola ad una realtà industriale improduttiva, poco efficiente e assoggettata agli interessi anglo-americani.[1] Tale giudizio, si è andato rafforzando a seguito della conclusione dell’inchiesta del PM Dott. Vincenzo Calia.  Il magistrato, la cui indagine sembra aver dato corpo alla tesi dell’attentato, non è riuscito a individuare gli autori del presunto reato; viene però avanzata l’ipotesi di una pista italiana, e, cioè, che gli ipotetici mandanti sarebbero da ricercare tra coloro che all’epoca della morte di Enrico Mattei erano i più importanti esponenti della vita politica ed economica del Paese. Nelle richieste inoltrate al Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) Fabio Lambertucci, il PM Calia non fa nessun nome;[2] alcune personalità vengono però indicate nel libro scritto insieme alla giornalista e pubblicista Sabrina Pisu: si insinua implicitamente che dietro la morte di Enrico Mattei possano aver avuto un ruolo Amintore Fanfani, Eugenio Cefis e Raffaele Girotti.[3] Ad ogni modo, Eugenio Cefis, rientrato all’ENI dopo la morte di Mattei, non ha ridimensionato l’azienda di Stato.

  Nel momento in cui scomparve Enrico Mattei, l’ENI stava attraversando un periodo di crisi finanziaria, dovuta alla rapidissima espansione dell’azienda sia in Italia e sia all’estero. Tale situazione di crisi rendeva l’ENI vulnerabile ed esposta al rischio di una colonizzazione politica dell’ente. Dunque, per evitare che ciò accadesse, ai vertici dell’azienda si insediarono quelli che furono i più stretti collaboratori di Mattei: la carica di presidente venne ricoperta da Marcello Boldrini; quella di vicepresidente da Eugenio Cefis; quella di direttore generale da Raffaele Girotti. Tuttavia, nonostante fosse Boldrini ad avere la carica di presidente, la guida effettiva dell’ENI venne affidata ad Eugenio Cefis, ritenuto dallo stesso Boldrini la persona più adatta a colmare il vuoto lasciato dalla morte di Mattei.[4]

  La nuova dirigenza dell’ENI nel biennio 1963-1965, dovette affrontare la difficile situazione finanziaria nella quale versava l’azienda e che la portava a non riuscire più a sostenere, dal punto di vista finanziario, gli investimenti fatti. Infatti, l’ente di Stato dalla sua fondazione in poi si era sviluppato in maniera rapida, investendo nelle attività di ricerca mineraria all’estero, nella penetrazione commerciale nell’Europa centro-settentrionale e nelle attività in Italia. Le fonti di finanziamento dell’azienda, tra cui gli introiti che derivavano dal controllo esclusivo sul metano della Pianura Padana, non bastavano a sostenere l’espansione e la diversificazione dell’ENI. Il nuovo vertice era preoccupato dal fatto che il capitale sociale dell’ENI, e cioè il fondo di dotazione, era totalmente inadeguato a sostenere gli investimenti avviati. Quindi, tra le prime cose che fece Cefis, fu quella di tagliare e ridimensionare le spese inutili per il gruppo, in attesa di ottenere dalla classe politica un aumento del fondo di dotazione.

   Gli aumenti del fondo di dotazione arrivarono in due momenti: prima nel 1964, quando il parlamento italiano decise di aumentare il fondo dell’ENI di 125 miliardi di lire (quindi da 36,9 a 161,9 miliardi di lire); successivamente nel 1968, allorquando le autorità politiche decisero di aumentare il fondo fino a 778,9 miliardi di lire. Tali risorse potevano consentire all’ENI di realizzare un nuovo programma di espansione.[5]

    Eugenio Cefis, negli anni del “dopo Mattei”, ebbe la responsabilità di portare a compimento le iniziative più promettenti, specialmente nell’ambito dell’espansione internazionale. La nuova dirigenza decise – nonostante il momento di difficoltà – di potenziare i costosi investimenti nella ricerca mineraria.

   Nel 1964 l’AGIP inaugurava due accordi di collaborazione con la Phillips (con la quale il rapporto era iniziato con la costruzione del petrolchimico di Ravenna) per l’esplorazione offshore di alcuni permessi in Iran e, soprattutto, per una partecipazione al 15% nell’attività di esplorazione nel Mare del Nord. Le ricerche portarono nel settembre 1969 all’individuazione di Ekofisk, il primo giacimento giant dell’Europa occidentale. Tra il 1966 e il 1967 altri accordi simili vennero stipulati con la Phillips e l’AMINOIL per le ricerche nell’emirato di Abu Dhabi, intese riguardo a una collaborazione nel trasporto degli idrocarburi rinvenuti dall’ENI in Libia vennero firmate con la BP, mentre si arrivò a una collaborazione con la Shell in Nigeria (per il trasporto), in Qatar e nell’esplorazione offshore dell’Adriatico settentrionale.[6]

     Nel 1967, quando Eugenio Cefis era diventato presidente dell’ENI a tutti gli effetti, la produzione dei campi all’estero dell’azienda era ormai avviata: l’AGIP operava in tredici diversi Paesi, la Tunisia stava per diventare il principale centro di produzione del gruppo mentre buone speranze si nutrivano anche per i più recenti ritrovamenti nel Mare del Nord, in Libia e in nuove concessioni in Iran.[7]   

   La prima crisi energetica del 1973 permise di consolidare le linee di sviluppo dell’attività mineraria le cui basi erano state definite nel decennio precedente.

   Nei Paesi in cui l’ENI era già presente da diversi anni, le operazioni erano solitamente affidate a società che prevedevano una partecipazione del governo locale. Questo assetto assicurava al gruppo aziendale una posizione tranquilla in Paesi in cui vi potevano essere delle rivendicazioni nazionaliste per ciò che poteva riguardare lo sfruttamento delle risorse petrolifere, e, quindi, si sarebbero potute avanzare delle pretese – da parte delle autorità locali – per una diversità dell’ENI rispetto ai concorrenti. In Libia, i permessi esplorativi entrarono in produzione in coincidenza con l’ascesa al potere di Gheddafi nel 1969, ma le attività della CORI – società dell’ENI che operava in Libia – non vennero toccate dall’espulsione della comunità italiana che venne sancita nell’estate del 1970, né dai provvedimenti anticoloniali e anticapitalisti adottati dal regime negli anni successivi. L’azienda di Stato italiana estese la collaborazione alle attività di raffinazione e all’impiantistica, mentre grazie ai ritrovamenti di Bu Attifel e Bouri – nel 1976 – la Libia si sostituì alla Tunisia come prima area produttiva dell’ENI.

   Ugualmente ad altre compagnie petrolifere, l’ENI intensificò le ricerche in aree inesplorate di Paesi non aderenti all’OPEC, principalmente nell’Africa subsahariana e in Asia. Questa estensione del raggio di azione comportava sovente accordi con altre multinazionali del petrolio, sia per ripartire i costi della ricerca e sia per scambiare gli idrocarburi individuati in aree in cui l’ENI non possedeva impianti di trasformazione con partite consegnate nei porti del Mediterraneo.

   Le attività in Nigeria partivano da premesse importanti nelle strategie di sviluppo del decennio precedente. Le concessioni detenute dal 1962 nella regione del Delta del Niger erano infatti state attribuite a una società mista in cui l’azienda di Stato nigeriana aveva la maggioranza del capitale, mentre quote inferiori erano divise tra l’AGIP e la Phillips (con il 20% del capitale ciascuna). I giacimenti individuati tra il 1965 e il 1967 erano tuttavia entrati in produzione solo a partire dal 1972, a causa delle difficoltà logistiche dell’area e della guerra civile che sconvolse il Paese dal 1967 al 1970.[8]

   Per fronteggiare la rapida crescita del prezzo del petrolio, si dovette potenziare lo sfruttamento del gas naturale, in particolar modo quello estratto in territorio italiano. Ad ogni modo, già le stime degli anni Sessanta limitavano le prospettive di utilizzo dei giacimenti della pianura Padana onshore ai primi anni del decennio successivo. L’ENI aveva già avviato delle trattative per la fornitura di metano dall’estero, facendo riferimento ai partner ai quali era già legata per le forniture di greggio, ossia l’Unione Sovietica e la Esso, quest’ultima impegnata nello sfruttamento di giacimenti di metano in Libia. L’ENI diversificò le forniture di gas legandosi a quello che in quegli anni stava diventando il primo produttore europeo, l’Olanda. Grazie agli accordi stabiliti nel periodo 1970-1971 con la Nam, l’ente di Stato italiano si impegnava a costruire un gasdotto che avrebbe portato in Italia sei miliardi di metri cubi di gas all’anno, attraversando la Germania e la Svizzera. Entrambe le condotte internazionali vennero avviate nel 1974.[9] In quello stesso periodo venne firmato un accordo con la società di Stato algerina SONATRACH che avrebbe portato, negli anni seguenti, alla costruzione di un metanodotto sottomarino che collegava l’Algeria all’Italia attraverso la Sicilia.[10]

   L’incremento della disponibilità del gas naturale non permise solamente di sostituire la produzione interna, ma aprì anche la prospettiva di estendere la rete di distribuzione ragionando, per la prima volta, in un’ottica nazionale, che avesse al centro gli usi civili e le reti urbane. Nel periodo che va dall’inizio della presidenza di Raffaele Girotti e la fine della presidenza di Pietro Sette, la rete nazionale di metanodotti incrementò di circa 4.000 chilometri e si raggiunse il totale di 13.660 chilometri nel 1979, e il peso del metano sui consumi energetici nazionali passò dal 10 a circa il 15,5%.[11]       


[1] Tale opinione è diffusa tra i diversi biografi di Enrico Mattei, i quali sostengono, con argomentazioni semplicistiche e caratterizzate dal pregiudizio, che morto il fondatore dell’ENI, l’azienda di Stato abbia iniziato un percorso di decadimento e di resa agli interessi anglo-americani: «Si dice che egli [Mattei] […] avesse previsto un armistizio senza cedimenti, che avesse in animo di firmare, ora che l’Eni si era conquistata il suo spazio nel mondo, un trattato di pace con i suoi tradizionali nemici, gli americani, e con i nuovi nemici, i francesi. Per la fine del ’62, si disse, dopo l’accordo con Ben Bella, sarebbe andato a Parigi per sancire la fine dell’ostilità. Si parlò di un incontro già organizzato con David Rockefeller, azionista di maggioranza della Esso, e di un suo viaggio in Usa previsto per il ’63, in cui sarebbe stato ricevuto personalmente da Kennedy e gli sarebbe stata conferita la laurea honoris causa di una università americana, a sottolineare il fatto che la sua non sarebbe stata una resa. […]. Chi disse tutte queste cose, chi lasciò filtrare queste notizie, furono i suoi successori e lo stesso Cefis, che si affrettarono appunto a firmare armistizi che avevano il segno della resa. È difficile perciò valutare la veridicità di queste voci, tutte accuratamente smentite dai protagonisti stranieri. Forse si trattò infatti soltanto di un tentativo di attribuire a Mattei il repentino mutamento della strategia dello stesso Mattei» (LUIGI BAZZOLI, RICCARDO RENZI, Il miracolo Mattei, Milano, Rizzoli, 1984); «Le esequie di Enrico Mattei si erano appena concluse e già prendeva corpo una gigantesca macchinazione per creare intorno allo scomparso presidente dell’ENI un’atmosfera impregnata di calunnie, false informazioni, confusione e ambiguità. Alla base di questa cinica e provocatoria messa in scena era individuabile l’intento, da parte degli amici del cartello, di liquidare post mortem la fama di irriducibile avversario delle sette sorelle che Mattei si era conquistata in anni di dura lotta contro di esse. Solo in questo modo, infatti, sarebbe stato possibile, ai successori del defunto industriale di Stato, capovolgere la politica autonomista sempre seguita dall’ENI pur continuando, sfacciatamente, a spacciarla per politica alla Mattei» (FULVIO BELLINI, ALESSANDRO PREVIDI, L’assassinio di Enrico Mattei, Milano, Edizioni Flan, pp. 249-250); «Ebbene, Cefis che avrebbe avuto, secondo Votaw le qualità più vicine alle doti di Mattei (vitalità, originalità, capacità organizzative) trasformò l’ENI precisamente in un “mercante” senza alcuna aspirazione a divenire “produttore”, scelta per la quale non occorreva alcuna qualità. Cefis fu scelto da Segni, da Fanfani, da Moro, influenzati dalle compagnie petrolifere, precisamente perché ancor più di Girotti, dalla personalità mediocre (ma almeno era un tecnico) avrebbe attuato con spregiudicatezza la politica di liquidazione dell’eredità di Mattei e di trasformazione dell’ENI in un mercante subalterno alle grandi compagnie. Era questa la politica che Cefis proponeva dall’estate del ’61, allorché Mattei, si è visto, aveva invece deciso di ampliare il suo raggio d’azione? È probabile» (GIORGIO GALLI, La sfida perduta. Biografia politica di Enrico Mattei, Milano, Bompiani, 1976, pp. 216-217); «Va dunque sottolineato che la morte di Mattei avvantaggiò, in Italia, tutti coloro che temevano un rafforzamento del suo potere, al vertice dell’Eni, negli affari, nella gestione delle ingenti risorse economiche dell’ente, nella politica e nel perseguimento della strategia suggerita dagli Usa. Si avvantaggiò Amintore Fanfani, in rotta con Mattei […] per le sue attese politiche e di potere. Si avvantaggiò Eugenio Cefis che, uscito dall’Eni nel momento più critico per l’ente e mentre Mattei si accingeva a trattare con l’amministrazione Kennedy, vi poté ritornare soltanto a seguito della sua morte» (BENITO LI VIGNI, Il caso Mattei. Un giallo italiano, Roma, Editori Riuniti, 2003, pp. 208-209); «[…] Sono tutti provvedimenti che andavano in direzione opposta alla politica di Mattei e agli interessi dell’Italia. Con essi l’Eni cominciava a cessare di esistere, come azienda di Stato autonoma e determinata nel cercare di creare le condizioni più favorevoli per lo sviluppo dell’economia e delle prospettive finanziarie nazionali, per approdare a un ruolo di supporto al più forte che tanto avrebbe contribuito nel creare indebitamento alla nostra comunità» (ALBERTO MARINO, Enrico Mattei deve morire! Il sogno senza risveglio di un paese libero, Roma, Castelvecchi, 2014, p. 36); «Dopo la scomparsa del suo creatore, l’Eni dava l’impressione di essersi ridotta a uno di quegli stagni melmosi in cui vivono e ingrassano i pesci color grigio nerastro col muso tozzo: pesci gatto, rospi e serpenti. Se non fu proprio così, poco ci mancò. A volte anche i sogni ad occhi aperti rivelano il significato di una realtà futura» (RAFFAELE MORNI, Enrico Mattei. Il partigiano che sfidò le sette sorelle, Milano, Mursia, 2011, p. 296); «[…] vissi il rapidissimo smantellamento dell’immane costruzione di Mattei e la sua precipitosa deferenza agli interessi delle grandi compagnie petrolifere americane. Per insipienza, paura per le corresponsabilità nella spregiudicata gestione precedente, per meschini regolamenti di conti, per rivalsa verso chi aveva avuto la fiducia di Mattei, per inconfessabili complessi d’inferiorità rispetto al capo scomparso, l’Eni si trasformò rapidissimamente in un baraccone burocratizzato e corrotto […] che nessuno era più capace di mantenere a un livello di dignità ed efficienza (NICO PERRONE, Obiettivo Mattei: petrolio, Stati Uniti e politica dell’ENI, Roma, Gamberetti, 1995, p. 228).

[2] Procura della Repubblica presso il tribunale di Pavia, Vincenzo Calia, Richieste del Pubblico Ministero (ai sensi dell’art. 415 c.p.p.), Procedimento penale n.181/94 mod.44. Le indagini sono state svolte dai marescialli Enrico Guastini, Antonio Trancuccio e dall’appuntato Giovanni Pais, dei Carabinieri di Pavia, pp. 426-428.

[3] VINCENZO CALIA, SABRINA PISU, Il caso Mattei. Le prove dell’omicidio del presidente dell’ENI dopo bugie, depistaggi e manipolazioni della verità, Milano, Chiarelettere, 2017, p. 190 e sgg.

[4] Cfr. DANIELE POZZI, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe: tecnologia, conoscenza e organizzazione nell’AGIP e nell’ENI di Enrico Mattei, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 459-460.

[5] Cfr. ivi, pp. 462-464.

[6] Cfr. ivi, pp. 483-484.

[7] Cfr. ivi, pp. 490-491.

[8] Cfr. DANIELE POZZI, Competenze, cultura aziendale, sviluppo in AA.VV. Eni, la storia di un’impresa. Passato, presente e futuro del cane a sei zampe, Milano, Feltrinelli, 2022, pp. 79-81.

[9] Cfr. ivi, p. 81.

[10] Cfr. ALESSIO ZANARDO, Dall’autarchia all’austerity. Ceto politico e cultura d’impresa nell’industria nazionale del metano (1940-1973), Roma, Aracne, 2012, pp. 306-317.

[11] Cfr. DANIELE POZZI, Competenze, cultura aziendale, sviluppo, op. cit., p. 82.

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