Dal Candido Di Giovannino Guareschi al Candido di Giorgio Pisanò

   Giovannino Guareschi è stato tra i più importanti giornalisti italiani. Si affermò già dagli anni Trenta con la fondazione del Bertoldo, un settimanale satirico, e poi continuò la sua attività giornalistica dopo la Seconda guerra mondiale (alla quale aveva partecipato) fondando nel 1945 il settimanale Candido, edito dall’editore Angelo Rizzoli. Il 18 aprile 1948, Guareschi affiancò la Democrazia Cristiana nella campagna elettorale, facendo un’accesa campagna anticomunista. Nel 1954 il giornalista ebbe un’incidente giornalistico: pubblicò delle false lettere di Alcide De Gasperi.

   Guareschi pubblicò sul Candido del 24 del 31 gennaio 1954 due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e firmate da De Gasperi che ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano. Le lettere erano due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, nelle quali De Gasperi avrebbe chiesto il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma. I documenti, vennero sottoposti a Guareschi da Enrico De Toma, nome che ritorna anche nella vicenda che riguarda il carteggio tra Benito Mussolini e Winston Churchill, e che aveva prestato servizio come sottotenente della Guardia Nazionale repubblicana ai tempi della Repubblica di Salò. Le lettere vennero riprodotte, e, agli inizi del febbraio del 1954, De Gasperi sporse querela contro Guareschi per il reato di diffamazione a mezzo stampa; il tribunale constaterà la falsità delle lettere, e il giornalista – riconoscendo le proprie colpe – andò in carcere scontando più di un anno di reclusione e sei mesi di libertà vigilata.

   Guareschi continuò la sua attività di giornalista sul Candido fino al 1961, quando il settimanale cessò le pubblicazioni. La cessazione della pubblicazione di Candido venne decisa dall’editore Rizzoli, a causa di una lite giudiziaria tra l’editore stesso e Guareschi a causa delle alterazioni apportate al film “Don Camillo”, alterazioni ritenute da Guareschi autore del soggetto, arbitrarie e profondamente modificatrici del significato del film stesso. L’insorgere della predetta lite giudiziaria costituì motivo di un grave contrasto tra Rizzoli e Guareschi e, quindi, di impossibilità di proseguire la collaborazione sull’altro piano, quello editoriale: Guareschi, pertanto, lasciò immediatamente l’incarico presso il Candido, che era in gran parte redatto da lui stesso. D’altra parte, il predetto settimanale da tempo aveva subito fortissime riduzioni delle vendite, per cui l’editore non prese nemmeno in considerazione l’eventualità di sostituire Guareschi, e preferì sopprimere il giornale.    

   Il Candido riprese le pubblicazioni nel 1968. La decisione di ridare vita al settimanale, venne presa nella primavera del ’68 dallo stesso Guareschi sotto la sollecitazione di Giorgio Pisanò. Guareschi avrebbe dovuto essere il direttore e il principale ispiratore, come lo era stato del primo Candido. Ma nel luglio dello stesso anno Guareschi morì, e Pisanò non volle abbandonare l’iniziativa, tanto più che aveva già predisposto tutto per l’uscita del settimanale.

   Il Candido di Giorgio Pisanò, agli inizi degli anni Settanta si fece conoscere per delle provocatorie inchieste, come quella contro colui che all’epoca era l’esponente di primo piano del Partito Socialista Italiano, ossia Giacomo Mancini.  

   L’inchiesta di Pisanò sul politico socialista calabrese, riguardò lo scanalo ANAS (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade). Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta scoppiò lo scandalo ANAS, ossia lo scandalo degli appalti all’interno dell’azienda di Stato costruzione strade. La vicenda ebbe inizio da un ricorso al consiglio di Stato dell’ex direttore Ing. Rinaldi, destituito dal ministro socialista Mancini, che aveva sostenuto che gli appalti all’interno dell’ANAS venivano aggiudicati alle ditte dietro pagamento di una tangente che poteva oscillare tra il 5% e l’8%, ma che solo in parte finiva nelle casse del partito. Il Pubblico Ministero aveva fatto mettere sotto controllo i telefoni del ministro, e le intercettazioni rivelarono che i funzionari comunicavano agli ispettori le buste e quindi il nome delle aziende da scegliere, ossia quelle che avevano pagato. Si tratta di diversi miliardi di lire e ne consegue una campagna scandalistica contro Giacomo Mancini, ministro dei lavori pubblici e segretario del PSI. La procura di Roma chiese di processare il ministro dei lavori pubblici per interessi privati. Si formò, dunque, una commissione inquirente e venne aperto un procedimento penale contro di lui, ma la commissione archivierà il caso. Ad essere incriminati, saranno solo i funzionari accusati di disonestà.[1]

   Pisanò nello stesso periodo assurse alle cronache italiane per la vicenda “De Laurentiis”, ossia il tentativo di Pisanò di ricattare il produttore cinematografico estorcendogli del denaro.  Dino De Laurentiis venne a sapere che il settimanale Candido si preparava a pubblicare un’inchiesta sugli enti cinematografici di Stato e privati. Anche “Dinocittà”, dunque, al centro proprio in quei giorni di clamorose polemiche per la decisione del produttore di smobilitare, risultava compresa nell’inchiesta giornalistica di Pisanò. A De Laurentiis, dunque, sarebbe sorta la curiosità di sapere che cosa esattamente il settimanale milanese avrebbe pubblicato su “Dinocittà”. Pisanò, disse, che avrebbe potuto scrivere dei volumi. Nel corso del colloquio, e dei successivi, registrati su dei nastri dal produttore, sarebbe stato anche specificato il contenuto di questi “volumi”. Il direttore del Candido, sapeva che “Dinocittà” sarebbe stata acquistata da un ente di Stato per un valore enormemente superiore a quello reale. In altre parole, sarebbe stato in grado di dimostrare che si andava preparando un peculato. Il produttore chiese a Pisanò di raggiungere un accordo. Il giornalista avanzò, inizialmente, una richiesta di venti milioni, poi ridotta a dieci, pagabili in due rate. De Laurentiis allora, spedì a Pisanò un assegno da tre milioni, ma il direttore del Candido rimandò al mittente l’assegno, ribattendo al produttore cinematografico che avrebbe preferito essere pagato in contanti. De Laurentiis, dunque, consegnò quattro milioni in contanti a Paolo Pisanò (fratello di Giorgio) che venne delegato a prendere in consegna il denaro. La consegna avvenne a Roma nel quartiere EUR, nei pressi dell’albergo Columbus nell’auto del produttore. Dopo la consegna dei primi quattro milioni, però, De Laurentiis avrebbe deciso di denunciare il ricatto. Infatti, presentò alla squadra mobile della questura una denuncia di quindici cartelle dattiloscritte, raccontando i fatti. De Laurentiis non presentò prima la denuncia perché aveva preso le precauzioni sufficienti a dimostrare che era rimasto vittima di una estorsione (il deposito presso un notaio della fotocopia dell’assegno e della lettera d’accompagno, dei nastri magnetici e di una dichiarazione sullo svolgersi dei fatti). Dopo la denuncia, scattò l’ultima fase della trappola per i fratelli Pisanò. Il capo della squadra mobile, il Dott. Palmieri, venne informato del dove e del come sarebbero stati consegnati i residui sei milioni. Del denaro, in banconote di taglio grande, la polizia ne annotò i numeri di serie. Nel momento in cui Paolo Pisanò prese in consegna il denaro, venne fermato e arrestato dagli agenti della squadra mobile. A Milano, poi, venne arrestato con un ordine anche Giorgio Pisanò. Il giornalista rimase in carcere per centoquattordici giorni, fino a quando non venne assolto dal Tribunale di Roma per insufficienza di prove. Giorgio Pisanò sostenne che in realtà la denuncia del produttore Dino De Laurentiis era una trappola politica preparata dal segretario socialista Giacomo Mancini e dal suo entourage, perché Candido, proprio in quel periodo, con i suoi feroci attacchi e con il materiale di cui poteva essere in possesso, sarebbe diventato pericoloso. Dunque, dal punto di vista del giornalista, De Laurentiis, sotto la spinta di politici di area socialista, si sarebbe fatto ricattare da Pisanò, acconsentendo di pagare una somma di denaro per evitare la pubblicazione sul Candido di articoli che lo riguardavano, per poi denunciare alle autorità giudiziarie il tentativo di estorsione; l’obiettivo sarebbe stato quello di fermare Giorgio Pisanò mandandolo, in qualche modo, in carcere.[2]   

Giorgio Pisanò, Fulvio Bellini e il “caso Mattei”  

      Nel marzo 1963, sul periodico Secolo XX diretto da Giorgio Pisanò, comparve una inchiesta in tre puntate dal titolo “Enrico Mattei è stato assassinato”.[3] L’autore degli articoli fissò la versione dell’attentato che, da qui in poi, sarà ripresa da altre inchieste giornalistiche di tipo scandalistico. Bellini, sosteneva che l’aereo di Enrico Mattei sarebbe stato sabotato con una bomba poco prima che questo decollasse da Catania per Milano-Linate. L’ordigno esplosivo – secondo l’autore – avrebbe fatto esplodere l’aereo poco prima dell’atterraggio, nel momento in cui il pilota avrebbe azionato il comando che permetteva al carrello di fuoriuscire. Tra i mandanti del delitto, Bellini ipotizzava il coinvolgimento delle sette compagnie petrolifere anglo-americane o l’OAS (Organisation de l’armée secrète): i primi avevano l’interesse a eliminare Enrico Mattei in quanto la politica dell’ENI disturbava i loro interessi in Medio Oriente; i secondi avevano l’interesse a fermare gli accordi commerciali tra l’ente di Stato italiano e il nuovo governo dell’Algeria indipendente. Questa inchiesta venne presa in considerazione dal PM Edgardo Santachiara, il Magistrato titolare della prima inchiesta penale. L’inquirente giudicò infondata l’inchiesta firmata da Bellini, in quanto si trattava di una ricostruzione fantasiosa dei fatti, priva di fonti attendibili. Inoltre – secondo gli inquirenti – l’autore probabilmente l’aveva scritta per motivi ricattatori, in quanto egli cercava una sistemazione lavorativa presso l’ENI.[4]

   Fulvio Bellini, l’autore degli articoli, sembra essere una figura controversa. Nato a Milano il 28 maggio 1923, partecipa alla resistenza come partigiano semplice nella 110° Brigata Garibaldi SAP operante nella zona di Lambrate. Successivamente, si iscrive al Partito Comunista Italiano (PCI), nel quale però non ha mai ricoperto incarichi direttivi; ne venne espulso per deviazionismo. Dopo aver frequentato gruppi di comunisti dissidenti facenti capo all’ex dirigente del PCI Onorato Damen, nel 1951 si unisce a gruppi titoisti senza tuttavia assumere incarichi in tali organizzazioni. La frequentazione di questi nuclei dissidenti della sinistra, permette a Fulvio Bellini di accedere ad una certa documentazione sugli avvenimenti della emigrazione politica, non del tutto noti in Italia; tali informazioni sono state utilizzate da Bellini per redigere con Giorgio Galli la Storia del Partito Comunista Italiano. Nel 1954, improvvisamente, da posizioni di estrema sinistra passa a “Pace e Libertà”, diretta da Edgardo Sogno e Luigi Cavallo, quest’ultimo ex collaborazionista dei tedeschi passato nel 1945 al PCI ed in seguito espulso dal partito. “Pace e Libertà” era strettamente collegata con il comitato Internazionale di Azione Sociale (C.I.A.S.) con sede a Bonn e diretto da un ex colonnello del servizio informazioni tedesco già operante durante il conflitto mondiale a Lisbona. Alla fine del 1954 il gruppo “Pace e Libertà” si scinde in due tronconi: la direzione di Pace e Libertà passa a un certo Adelino Ruggeri ex dirigente socialista, e animatore a Brescia di gruppi di estrema destra. La scissione era stata determinata da motivi di carattere prettamente finanziario dato che Cavallo e Bellini erano convinti di poter accedere direttamente alle fonti di finanziamento a cui attingeva Edgardo Sogno. La lotta tra i due gruppi aveva anche uno strascico in sede giudiziaria, con cause e contro cause, ma tutto veniva posto a tacere dall’Ing. De Rossi della Microtecnica di Torino, finanziatore dei più compromessi, il quale temeva che in sede di giudizio, venissero fatti i nomi di coloro che stanziavano i fondi. Dopo aver svolto attività di capo-redattore del mensile “Fronte del Lavoro”, Bellini inizia nel 1957 una saltuaria attività di collaborazione con il settimanale “Candido”, allora diretto da Alessandro Minardi ed edito dall’editore Rizzoli. Nel 1962-63 lo vediamo direttore dell’Agenzia A-Servizio Borsa. Dopo questa parentesi non politica si aggrega alla organizzazione di estrema destra, fondata da Giorgio Pisanò, “Seconda Repubblica” in concorrenza con il “Fronte democratico per una Nuova Repubblica” fondato da Randolfo Pacciardi. Dal 1963 al 1970 Bellini lavorò attivamente al fianco di Giorgio Pisanò, prima al “Secolo XX” e poi al “Candido”, dedicandosi anche alle ricerche storiche per i volumi neo-fascisti “Parà” e “Ultimi in grigio verde”. Collaborò anche alla stesura della Storia della Guerra civile in Italia, svelando i retroscena dell’attività comunista durante quel periodo. Nell’ottobre del 1968, su Candido, è tra i promotori della azione contro gli enti di Stato per l’affare Montedison. Alla fine del 1969, accetta le offerte che gli vengono dall’industriale milanese Gianvittorio Figari (liberale) e, nel marzo 1970, passa alle sue dipendenze, dando inizio ad una campagna diffamatoria nei confronti del Pisanò. Bellini fu anche in contatto con il capo della squadra politica della PS di Milano, Antonino Allegra, con il quale svolse un ruolo di confidente.

   Secondo una fonte, Fulvio Bellini sarebbe un mitomane, che vede omicidi dappertutto, rivolgendo accuse infamanti a uomini e organizzazioni politiche, atteggiandosi a moralizzatore e vendicatore di presunte ingiustizie; sarebbe anche un maestro nel costruire i falsi: viene riferito, infatti, che lo si vedeva spesso in biblioteca intento allo studio e alla preparazione di qualcosa del genere. Fra i falsi che vengono menzionati, vi è l’accusa a Di Vittorio di essere stato il mandante dell’assassinio dei fratelli Rosselli. Furono costruiti falsi anche relativi a noti esponenti dell’antifascismo, fatti in modo da farli vedere come spie dell’OVRA. I documenti – viene detto – infatti avevano le caratteristiche della credibilità, in quanto Bellini si era specializzato nella loro ricostruzione attraverso attente letture in biblioteca. Per compromette alcuni antifascisti, riuscì a falsificare anche la pubblicazione clandestina “La Nostra Lotta”, riportando un fotomontaggio su “Candido”, smentito clamorosamente dal tipografo signor Ambrogio Mauri, che aveva composto il foglio clandestino al tempo della guerra di liberazione. Altro falso sarebbe stato quello relativo alla costituzione di un presunto sindacato artigiani che doveva concedere anche contributi alle piccole aziende. I veri sindacati diffidarono quello del Bellini e si presume vi sia stata anche una denuncia per truffa.[5]

Il “caso Mattei” nelle pagine del Candido

La morte di Enrico Mattei e le teorie della cospirazione, tornano sulla stampa in concomitanza di due eventi: la scomparsa di Mauro de Mauro e l’acquisizione del controllo della Montedison da parte del gruppo ENI.

L’ENI e la Montedison

     La Montecatini – Edison (successivamente rinominata Montedison) nacque nel dicembre 1965 dalla fusione tra Montecatini, la più importante azienda chimica italiana, e la Edison, gruppo industriale che aveva il suo core business nella produzione e nella distribuzione dell’energia elettrica. Questa azienda, già a partire dagli inizi degli anni Cinquanta, e, dunque, ben prima che l’industria dell’energia elettrica venisse nazionalizzata con la costituzione dell’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (ENEL), iniziò una espansione nel settore della chimica di base.[6]

   Fino al 1948 il gruppo Edison aveva operato nel campo dell’energia elettrica in una situazione di monopolio; successivamente, con la fine degli anni Quaranta, iniziò una strategia di diversificazione andando a privilegiare il settore della chimica. Negli anni successivi, sia le incoraggianti prospettive del settore chimico e sia il timore della nazionalizzazione dell’industria elettrica, rafforzarono ancora di più l’impegno della Edison a diminuire gli sforzi nel proprio core business e a incrementare gli investimenti nella chimica, e, inoltre, anche se con una crescita confusa, entrare in settori quali la siderurgia, la metalmeccanica, l’elettronica, l’elettromeccanica, il tessile e l’abbigliamento, l’alimentare, l’ingegneria civile e nella distribuzione con l’acquisizione della Standa.[7] 

   La strategia che venne adottata per entrare nel settore chimico, fu quello di costituire delle nuove imprese in joint venture con i gruppi esteri: la Sicedison nella petrolchimica con la Monsanto; la Celene nelle plastiche con la Union Carbide; l’Acsa nelle fibre con la Chemstrand, consociata della Monsanto. Queste attività, però, non diedero risultati soddisfacenti. L’Edison incontrò grandi difficoltà, principalmente per il fatto che non aveva la necessaria esperienza nell’operare nel settore della chimica. A supplire all’inesperienza della Edison nel campo della chimica c’era la Montecatini, azienda da sempre attiva in questo settore ma che versava in gravi condizioni finanziarie. L’Edison, con la nazionalizzazione dell’industria elettrica, aveva ricevuto dallo Stato gli indennizzi per le attività espropriate, e, quindi, i risarcimenti avevano fornito al gruppo industriale ingenti risorse finanziarie. Furono queste le circostanze che portarono alla fusione della Montecatini con la Edison, e cioè: da una parte la Edison che aveva iniziato l’espansione in un settore (il chimico) nel quale aveva poca esperienza; dall’altra parte la Montecatini, che operava da sempre nella chimica ma versava in gravi condizioni economiche. La fusione delle due aziende, dove l’una portava le risorse finanziarie e l’altra contribuiva con la sua grande esperienza, venne vista bene dal mondo industriale, economico e politico italiano, dato che tale fusione portava alla nascita di una grande azienda attiva nella chimica che avrebbe potuto competere con i grandi gruppi chimici stranieri (Dupont; Imperial Chemical Industries; Bayer; Monsanto; Hoechst; Rhône-Poulenc).[8]

   Le aspettative riposte nella nuova società vennero deluse: nel corso degli anni, emersero chiaramente i limiti dell’azienda che non erano stati accuratamente valutati.

   La fusione delle due aziende pose prima di tutto problemi di coordinamento che non vennero risolti se non parzialmente; non venne fatta un’opera di riorganizzazione delle società, per essere inserite in una struttura organica e unitaria. Al termine del decennio, l’azienda continuava ad essere un grande conglomerato di attività non coordinate in un indirizzo unitario di sviluppo, ed espressione di tante iniziative già intraprese a suo tempo dalla Montecatini e dalla Edison, maggiormente nel settore delle materie plastiche. Allo stesso tempo, non si affrontava l’assenza, o, comunque, la debolezza dell’azienda nei campi della chimica fine e secondaria; non si metteva neanche fine allo sperpero di risorse in attività extra chimiche o che con la chimica non avevano nulla a che vedere. Infatti, nel settore tessile, settore nel quale si era rafforzato l’impegno ancora prima della fusione, i risultati economici furono negativi; così come furono negativi i risultati nei settori della meccanica, elettromeccanica, dell’elettronica e delle costruzioni e montaggi. Nel campo dell’alimentare si avevano delle situazioni contrapposte: la Italpi dava buoni utili, mentre la Cga era in perdita. Nel settore delle fibre e della farmaceutica la redditività precipitò rapidamente a partire dal 1967.[9]

   I mancati risultati economici e il mancato obiettivo di dare vita a un gruppo industriale chimico efficiente – in grado di andare oltre al campo della chimica di base – spinse la classe dirigente a togliere la fiducia al management di Montedison, e, dall’aprile 1968, il Ministero delle partecipazioni statali, autorizzò l’IRI e l’ENI ad acquistare le azioni in borsa della Montedison, al fine di prendere il controllo dell’azienda per poterne poi cambiare la politica di gestione. L’ENI ambiva ad avere la posizione di maggioranza nell’azionariato di Montedison, cosicché avrebbe potuto gestire meglio gli scontri che l’ente di Stato aveva con il gruppo industriale privato, dato che l’ENI operava nella chimica con l’Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili (ANIC).[10] 

   Vi era chi si opponeva al take over dell’ENI alla Montedison: i giornalisti Giorgio Pisanò, Fulvio Bellini e Alessandro Previdi. Essi erano tra gli organizzatori dei comitati di piccoli azionisti Montedison che cercarono di impedire a Eugenio Cefis di ottenere il controllo del gruppo chimico privato. Gli strumenti utilizzati da loro era l’uso strumentale della morte di Enrico Mattei.

   Bellini e Previdi, all’inizio degli anni Settanta, iniziarono a insinuare che dietro la tragica e violenta scomparsa del primo presidente dell’ENI avrebbe potuto avere un ruolo Eugenio Cefis, e, dunque, si voleva indirizzare l’opinione pubblica in questa direzione. Non a caso, la pubblicazione del noto libro di Bellini e Previdi, “L’assassinio di Enrico Mattei”,[11] risale proprio al 1970. Questo libro, che verrà utilizzato da Francesco Rosi per scrivere la sceneggiatura del suo film inchiesta “Il caso Mattei” (1972), venne finanziato dall’ingegner Cavalli, collaboratore dell’ingegner Valerio, amministratore delegato e presidente della Montedison, all’epoca in contrasto con Cefis e l’ENI per la scalata del gruppo pubblico a quello privato. Il fatto che il libro firmato da Bellini e Previdi da usare contro Cefis sia stato finanziato da un collaboratore di Valerio, è lo stesso Bellini a confermarlo. Nell’ambito della seconda inchiesta sulla morte di Enrico Mattei, Bellini venne interrogato dal PM Vincenzo Calia, appunto per spiegare il contesto nel quale comparvero, agli inizi degli anni Settanta, pubblicazioni volutamente diffamatorie e ricattatorie nei confronti di Cefis, ossia il contrasto tra Valerio e l’ENI per il controllo della Montedison. Bellini disse:

   […] È vero che ho accennato […] circa un finanziamento del mio libro “L’assassinio di Enrico Mattei”. Colui che mi ha suggerito di scrivere quel libro, fornendomene anche un modesto aiuto finanziario, fu l’ing. Cavalli, all’epoca stretto collaboratore dell’ing. Valerio, quest’ultimo avversario di Cefis per il timore che il presidente dell’ENI lo scalzasse dal controllo della Montedison […].[12]

Il “caso Mattei” compare in diversi articoli del “Candido. Il settimanale del sabato”, dal novembre del 1970 in poi, firmati da Giorgio Pisanò. Fascista mai pentito, Pisanò dal Secondo dopoguerra è un militante del Movimento Socialista Italiano (MSI), e dalle pagine del Candido – settimanale di cui egli era il direttore – sferrava feroci attacchi contro il comunismo, il Partito Socialista, e, anche, contro le aziende di Stato.

   Sfruttando il clamore mediatico sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro e la cosiddetta “pista Mattei” seguita all’epoca dalla squadra mobile della Polizia – ossia la pista investigativa che collegava la scomparsa del giornalista di Palermo alla morte di Enrico Mattei[13] – Pisanò ripropose l’inchiesta sulla morte del presidente dell’ENI. L’inchiesta, intitolata “Mauro De Mauro: gli assassini di Enrico Mattei colpiscono ancora[14] è, in realtà, una riedizione dell’inchiesta apparsa nel marzo-aprile 1963 sul Secolo XX a firma di Fulvio Bellini. Questi articoli – probabilmente – furono scritti da Pisanò, in quanto egli ne rivendica la paternità sul Candido del 6 febbraio 1972, nel quale egli scrive che la sua inchiesta è stata usata dal regista Francesco Rosi per realizzare il noto film su Mattei senza mai citarla. Ciò che è stato interessante constatare a seguito dello spoglio delle annualità del Candido dal 1968 in poi, è il fatto che le inchieste sulla morte di Enrico Mattei – dove veniva insinuato un coinvolgimento di Eugenio Cefis nella presunta congiura – comparivano negli stessi numeri nei quali Pisanò attaccava l’ENI e Cefis per la vicenda ENI-Montedison, e, cioè, il tentativo dell’azienda petrolifera di Stato di prendere il controllo del gruppo chimico privato. Dal 1968 in poi, Pisanò, dalle pagine del Candido, si fece promotore di una battaglia contro gli enti di stato (ENI e IRI), per evitare che i grandi gruppi pubblici prendessero il totale controllo della Montedison. I piccoli e medi azionisti venivano invitati a non vendere i titoli in loro possesso, per evitare che poi questi potessero essere rastrellati in borsa dalle aziende di Stato – ENI in primis – con la finalità di avere la maggioranza delle azioni, e, di conseguenza, il controllo dell’azienda. Il Candido, inoltre, si fece promotore della creazione delle associazioni degli azionisti Montedison, e, cioè, L’associazione Difesa Azionisti (ADA) e l’Unione Nazionale Azionisti Montedison (UNAM). L’obiettivo di queste associazioni era quella di mettere insieme un cospicuo numero di azioni per avere un cosiddetto “sindacato di voto”, ossia un patto parasociale tra i gruppi dei piccoli e medi azionisti Montedison, che aveva la finalità di esercitare un controllo e difendere il carattere privatistico dell’azienda.[15]

Giorgio Pisanò, Eugenio Cefis e la Montedison

   Giorgio Pisanò, nel luglio 1968, entrò in contatto con Giovannino Guareschi al quale propose di rieditare il settimanale “Candido”. Dopo alcuni contatti nel mese di luglio fu decisa la costituzione della società a responsabilità limitata “Val Padana” stabilendo le quote di partecipazione nella seguente misura: 55% Gurareschi, 40% Pisanò attraverso la madre, e il 5% dott. Cucchiella. Quest’ultimo vanne nominato unico dalla nascente società.

   Nell’agosto dello stesso anno si ebbe la morte di Giovannino Guareschi. La quota del defunto dai suoi stessi parenti fu ceduta gratuitamente a Giorgio Pisanò che in tal modo ebbe la possibilità di impadronirsi della testata del giornale, che iniziò le pubblicazioni nel settembre del 1968.

   Alla fine di ottobre si ebbe il primo bilancio interno della “Val Padana” con un deficit di una decina di milioni. Tale circostanza determinò il ritiro del dott. Cucchiella da amministratore della società stessa, e la nomina al suo posto di Giorgio Pisanò.

   Nel novembre del 1968 “Candido” iniziò una campagna a favore dei piccoli azionisti della Montedison contro gli interventi degli enti di Stato (ENI). Alla campagna rispose l’ing. Gianvittorio Figari, ex consigliere della Edison, e l’avvocato Augusto Erba, già consigliere provinciale della DC. Nel gennaio del 1969 i suddetti signori con Giorgio Pisanò e Fulvio Bellini costituirono l’Associazione Difesa Azionisti (ADA). Ad essi si aggiunse anche il rag. Danani, consigliere delegato della società “Cofinter”.

   Secondo la fonte, Pisanò sperava di risolvere la sua difficile situazione economica speculando sull’attività dell’ADA offrendo i suoi servizi al presidente della Montedison, ing. Giorgio Valerio. Questo suo tentativo però fallì anche perché il defunto on. Arturo Michelini, su richiesta dell’ing. Valerio, fornì pessime informazioni su Pisanò, definito come un individuo capace di ogni cosa.

   Nell’aprile del 1969 le due società del Pisano, FPE (Fratelli Pisanò Edizioni) e “Val Padana” si trovavano in gravi crisi economiche, quando vi fu l’assemblea della Montedison alla quale l’ADA si presentò con 23 milioni di azioni. Si sviluppò in seno all’assemblea una accesa battaglia che si concluse con un grave scacco da parte dell’ENI, obbligata a ritirare l’articolo 12 (espediente per dare il controllo di fatto della società agli enti di Stato), e con un successo dell’ADA.

   Nonostante questa vittoria, Giorgio Pisanò rimaneva in una grave situazione economica. Il “Candido” intanto continuò la campagna scandalistica contro Eugenio Cefis e gli altri esponenti dell’ENI.

   Nel giugno 1969, vi fu l’intervento del rag. Francesco Guerrera, consigliere delegato della Monteshell (società del gruppo Montedison), che a nome del dott. Giorgio Macerata, vicepresidente della Montedison, proponeva a Pisanò un incontro con Franco Briatico, con la finalità di giungere ad un accordo in base al quale il Candido e l’ADA, pur continuando apparentemente la campagna contro gli enti di Stato (ENI e IRI), in effetti si impegnavano a coordinare la loro azione a favore della politica condotta dall’ENI.

   Franco Briatico, presidente dell’Agenzia giornalistica “Italia” e capo dell’ufficio relazioni pubbliche dell’ENI, sarebbe un uomo di fiducia di Eugenio Cefis e ufficiale pagatore dell’ENI.

   In cambio della collaborazione l’ENI, sempre a mezzo di Briatico, si impegnò a versare al Pisanò 125 milioni, a rate, entro l’aprile del 1970. Successivamente, nel novembre 1969, in seguito a un intervento del dott. Macerata, la cifra venne aumentata di altri 50 milioni.

   L’agire disonesto di Giorgio Pisanò non sfuggì all’ing. Figari che chiese spiegazioni su tutti i contatti che gli ad personam aveva avuto con i rappresentati dell’ENI. Ciò provocò lo scontro di due opposte politiche che si concluse con la scissione dell’ADA, in base alla quale furono estromessi Giorgio Pisanò e l’avvocato Erba che aveva solidarizzato con lo stesso. Questi ultimi costituirono l’UNAM (Unione Nazionale Azionisti Montedison).

   Nell’aprile del 1970, ci fu l’assemblea annuale della Montedison alla quale Giorgio Pisanò si presentò come vicepresidente dell’UNAM con 52 milioni di azioni, delle quali però 30 milioni sarebbero state passate sottomano da Franco Briatico. Nell’assemblea, Giorgio Pisanò lasciò credere di essere un elettore del nuovo presidente Merzagora, per cui riuscì a determinare la nomina di due rappresentanti dei piccoli azionisti quali consiglieri di amministrazione nella persona dell’avv. Erba e del dott. Nadia.

   Tale successo fece acquisire a Pisanò molta sicurezza, il quale pensava adesso di poter discutere alla pari con tutti i dirigenti della Montedison. Questo stato di fatto determinò uno stato di tensione con Franco Briatico che continuava, per conto di Eugenio Cefis, a mantenere i contatti con il direttore del “Candido”.

   Nel frattempo la situazione finanziaria del giornale di Pisanò si aggravò ulteriormente, e il giornalista avrebbe richiesto l’aiuto del Senatore Nencioni affinché questi intercedesse presso Eugenio Cefis a suo favore. A seguito della sua richiesta, Nencioni invitò a Roma il Pisanò. Il senatore, prospettò al giornalista la possibilità di ricevere ulteriori aiuti economici – senza tuttavia specificarne l’origine – se il “Candido” avesse iniziato una campagna diffamatoria contro il segretario del Partito Socialista, ossia l’onorevole Mancini. Pisanò, in seguito, iniziò sul suo giornale la campagna stampa contro Giacomo Mancini, che riguardava il cosiddetto scandalo ANAS. Secondo la fonte, la campagna stampa di Pisanò contro Mancini, venne finanziata dal presidente dell’ENI Eugenio Cefis, il quale, essendo venuto a conoscenza dei passi svolti dal Partito Socialista per impedire la sua riconferma alla presidenza dell’ENI, era interessato a gettare nella pubblica opinione motivi di discredito a carico della massima autorità del PSI.[16] Infatti, agli inizi degli anni Settanta, allorquando era in scadenza il vertice dell’ENI, il PSI aveva la forte ambizione di inserire un suo uomo di partito all’interno dell’azienda petrolifera di Stato, che, dalla sua fondazione, è stata presieduta da uomini legati alla Democrazia Cristiana (DC). L’obiettivo del PSI, era quello di assicurare la sua presenza e la sua responsabilità, attraverso personalità legate al partito, all’interno di importanti settori dell’industria di Stato.[17] L’ENI, rappresentava una importante risorsa per i partiti politici, utilizzata come fonte di finanziamento; il PSI ambiva ad entrare in questo ente con l’intento di fare un uso migliore dell’ENI come fonte di finanziamento per il partito. Nel 1971 però, quando Eugenio Cefis lasciò la presidenza dell’ENI, gli succedette Raffaele Girotti,[18] anche lui legato politicamente alla DC. Il PSI riuscì solo ad ottenne la vicepresidenza, inserendo il Prof. Francesco Forte, che, per l’appunto, era un “uomo del partito”.[19]

      La vicepresidenza dell’ENI (il primo significativo inserimento socialista nelle imprese pubbliche operanti nei settori industriali con caratteri di autonomia e polisettorialità (quindi enel ed altre esperienze non industriali a parte). Esso avviene in un momento molto delicato, sia per l’eni, sia per la situazione politica ed economica generale. Per quanto riguarda la situazione politica ed economica, potrebbe verificarsi a breve termine una involuzione generale (uscita dai socialisti dal governo, prolungarsi della attuale incertezza politica, approfondimento della crisi economica) che porterebbe all’isolamento della presidenza eni, bloccandone le possibilità innovative. Ma anche se la situazione generale restasse quale è attualmente o migliorasse, resta il fatto che la situazione stessa dell’eni è oggi molto delicata: scelte strategiche differite, assolvimento della funzione pubblica dimenticato equilibrio gestionale indebolito, organizzazione dei quadri aziendali chiusa all’innovazione. Da tutti i punti di vista l’eni è in una situazione di stallo con sintomi di involuzione: le poche azioni in corso si collocano nella linea della continuazione acritica di impegni precedentemente assunti, cresciuti meccanicamente. Ciò che quindi più interessa è la ripresa dell’iniziativa a tutti i livelli. Ci si può domandare quale è il contributo che potrà venire dalla vicepresidenza socialista a questo riguardo. Ma prima ancora di pensare alle nuove iniziative bisogna domandarsi quale spazio reale vi sia per l’inserimento effettivo del vice presidente socialista, scontando naturalmente che, non senza fatica, sia l’inserimento personale del vicepresidente, sia un migliore uso dell’eni come fonte di finanziamento per il partito sono due obiettivi comparativamente facili da raggiungere. Ciò che è più difficile è aumentare l’incidenza della “parte socialista” nell’Eni e in definitiva in tutto il sistema delle partecipazioni statali, non in termini di spartizione statica di “favori” o “posti”, ma in termini effettivi di incidenza, progressivamente più forte e qualificata sulle scelte strategiche e di controllo effettivo sugli andamenti gestionali (senza aver acquisito il quale si fa solo della letteratura di evasione e non si incide sulla realtà).[20]

L’inchiesta a firma Goldrake

   Il “caso Mattei” torna nelle pagine del Candido tra il settembre 1979 e il febbraio 1980, in una lunga inchiesta di ventidue puntate firmate da un fantomatico Goldrake; dietro lo pseudonimo si cela l’identità di Fulvio Bellini. La lunga inchiesta, collega la morte di Enrico Mattei a quella di altri casi: la morte del colonnello Renzo Rocca; la scomparsa di Mauro De Mauro; la morte del giornalista Salvatore Palazzolo; la morte del procuratore Pietro Scaglione; la morte di Boris Giuliano e quella di Cesare Terranova; del colonnello dei Carabinieri Russo e del prof. Costa; e del boss mafioso Giuseppe Di Cristina.

   Renzo Rocca, già direttore dell’ufficio Ricerca Economica e Industriale del SIFAR, passò poi alle dipendenze della FIAT, quando il 27 giugno 1968 fu trovato morto nel suo ufficio romano. Nonostante la versione ufficiale del suicidio non venne condivisa da tutti, questa venne avvallata dal giudice Ernesto Cudillo. La tesi di Fulvio Bellini, vuole che il colonnello Rocca aveva scoperto la verità sulla morte di Enrico Mattei, dopo aver svolto delle indagini per conto del presidente della FIAT Vittorio Valletta. Ferreo avversario di Eugenio Cefis, Valletta si sarebbe affrettato a passare il materiale preparato da Rocca al presidente della Montedison Giorgio Valerio; il fascicolo avrebbe contenuto informazioni sul ruolo che avrebbe avuto la CIA e lo SDECE nella preparazione tecnica del sabotaggio dell’aereo personale del presidente dell’ENI, sulle responsabilità maturate a livello politico italiano, sui veri motivi della rottura fra Mattei e Cefis, e sulla parte avuta da quest’ultimo nel complotto. Prima che il dossier giungesse nelle mani di Italo Mattei (fratello di Enrico) qualcuno avrebbe provveduto a sopprimere il colonnello Rocca con modalità tali da far sembrare il suo decesso un suicidio.

   Salvatore Palazzolo, giornalista siciliano, morì in un albergo milanese il 17 luglio 1969. L’autore dell’inchiesta, include la scomparsa di Palazzolo nella catena di morti sospette che hanno un collegamento con la scomparsa di Enrico Mattei. Il giornalista siciliano, pare che avesse svolto una sua inchiesta sul “caso Mattei” e voleva offrire le sue conclusioni al settimanale milanese ABC . Palazzolo venne trovato morto nella sua stanza d’albergo; la versione ufficiale stabilì che il giornalista morì per un collasso cardiaco.

   Anche gli assassinii per mano della mafia del procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione e del commissario di Polizia Boris Giuliano furono a suo tempo fatti discendere – da alcuni osservatori – dall’esigenza di bloccare la proliferazione di rivelazioni sulle vicende di Mattei e di De Mauro.

   Per quanto riguarda il “caso Scaglione”, Fulvio Bellini nella sua inchiesta sottolinea tre coincidenze che – secondo il giornalista – permettono di collegare la morte di Pietro Scaglione al “caso Mattei”: a) poco tempo prima di essere assassinato aveva ricevuto nel suo studio Mauro De Mauro, il quale era interessato a comunicare al magistrato le scoperte che aveva fatto sui retroscena della morte di Mattei. La circostanza venne confermata dal commissario di polizia Bruno Contrada, secondo il quale De Mauro sarebbe stato visto nell’anticamera del procuratore proprio nell’agosto del 1970, nonché dal giudice Ugo Saito – all’epoca viceprocuratore – da Graziano Verzotto e dal giornalista Giovanni Carbone; b) nelle indagini che seguirono dopo la scomparsa di De Mauro, il magistrato aveva espresso il suo pieno appoggio al pubblico ministero Saito, che si era opposto alla scarcerazione dell’indiziato Antonino Buttafuoco; c) nelle vesti di responsabile della procura di Palermo, Scaglione aveva dato il suo benestare all’incriminazione e all’arresto di Giuseppe Di Cristina, una mossa che rimetteva il boss di Riesi e il suo amico Graziano Verzotto al centro dei sospetti per il rapimento di Mauro De Mauro e l’antecedente presunto complotto contro Mattei.

   Anche l’assassinio del commissario di polizia Boris Giuliano per mano del mafioso Leoluca Bagarella è stato addebitato al clan Corleonese di Totò Riina e Bernardo Provenzano e messo in correlazione all’uccisione di Mauro De Mauro. Fulvio Bellini nella sua inchiesta addebita la soppressione di Boris Giuliano – che alla vigilia di essere assassinato si riprometteva di riaprire il “caso De Mauro” – a quanti guardavano con preoccupazione alla massa di prove e di indizi raccolti dal commissario contro la banda Verzotto-Guarrasi e altri potenti personaggi e temevano che il ritorno di Cesare Terranova all’attività giudiziaria potesse preludere alla riapertura del “caso De Mauro-Scaglione”.[21]

   Questa inchiesta, venne commissionata da Giorgio Pisanò a Fulvio Bellini. Il direttore di Candido chiese al collega giornalista di riproporre l’inchiesta sul “caso Mattei” per rivolgere un attacco a Eugenio Cefis, dove l’accusa di un suo coinvolgimento nella congiura è decisamente esplicita nella seconda puntata pubblicata il 4 ottobre 1979, intitolata, per l’appunto, Tutti gli uomini della congiura. Nell’articolo, vengono messe in risalto le foto di coloro che avrebbero partecipato all’organizzazione del complotto per eliminare il fondatore dell’ENI, tra cui Eugenio Cefis. Bellini, spiegò la genesi di questa inchiesta:

   Gli attacchi a Cefis a firma Goldrake apparsi sul Candido mi furono anche essi commissionati dal mio direttore Giorgio Pisanò, il quale riteneva di essere stato arrestato per una vicenda con il produttore Dino De Laurentiis a seguito di una manovra ordita a suo danno da Eugenio Cefis.[22]

Come la magistratura ha interpretato le inchieste giornalistiche sul “caso Mattei”

   La magistratura di Pavia e di Palermo – quest’ultima ha ripercorso le indagini sulla morte di Mattei del Dott. Vincenzo Calia nell’ambito delle indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro – ha preso in considerazione le inchieste di Bellini e Pisanò sottoponendole ad un’attenta analisi. Gli inquirenti, hanno ricostruito il contesto economico e politico (contesto che è stato ricostruito anche in questa sede) nel quale nacquero le inchieste di Bellini e Pisanò apparse sul Candido e su monografie come L’assassinio di Enrico Mattei. La magistratura ammette – e accerta – che tali inchieste avevano finalità ricattatorie e diffamatorie nei confronti di personalità del mondo politico ed economico di allora, in particolare contro Eugenio Cefis. Sono soprattutto Fulvio Bellini e Giorgio Pisanò ad attaccare il presidente dell’ENI e successore di Enrico Mattei, allorquando egli vuole conquistare la presidenza della Montedison. Le provocazioni fatte nei confronti di Eugenio Cefis con le inchieste sulla morte di Mattei sortirono l’effetto per gli autori di ottenere dei vantaggi economici dal ricattato: infatti, Fulvio Bellini, per sua stessa ammissione, proprio nel 1971, quando Cefis era diventato il presidente della Montedison, ottenne da quest’ultimo un incarico come consulente della presidenza che manterrà fino a quando Cefis rassegnerà le dimissioni nel 1977. Questo incarico ben remunerato, gli venne concesso da Eugenio Cefis dopo che – stando alla ricostruzione dei fatti fornita dallo stesso Bellini – ricevette delle minacce e dopo che subì un’aggressione.[23]

   Ricordo che nel 1971 subii un agguato a Milano. Era in atto uno scontro tra me e la Montedison. Avevo ricevuto una telefonata di minaccia nel mio ufficio da qualcuno che con accento meridionale mi intimava di smetterla di dare fastidio alla Montedison. Lo trattai male, lo mandai a quel paese quella persona. Dopo un paio di giorni fui brutalmente assalito e di ciò feci denuncia in Questura. Ricevetti nuovamente una telefonata dallo stesso signore, il quale mi chiese se avevo compreso il messaggio. Dopo una quindicina di giorni mi chiamò la segretaria di Eugenio Cefis dicendomi che il “presidente” voleva incontrarmi. Mi recai a foro Bonaparte dove Cefis mi accolse con grande cordialità. Mi fece molti complimenti e mi propose una stabile collaborazione con la Montedison che io accettai. Sempre nello stesso periodo il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina la notizia che io ero tra coloro che erano stati controllati con intercettazioni telefoniche abusive effettuate da Tom Ponzi, il quale notoriamente operava per Eugenio Cefis.[24]  

La magistratura, sia quella di Pavia che di Palermo, dunque dà questa interpretazione alle pubblicazioni che rivolgevano provocazioni contro Cefis: l’attentato nel quale era rimasto vittima il presidente dell’ENI Enrico Mattei era un’arma di ricatto che poteva essere monetizzata, e, cioè, la si poteva usare contro qualcuno per ottenere dei benefici economici. Se il destinatario del ricatto cede alla provocazione, vuol dire che il ricattato teme davvero che l’opinione pubblica possa credere ad un suo coinvolgimento nell’attentato, o, pericolo ancor più da scongiurare, teme che le inchieste possano sortire l’effetto di far riaprire un’inchiesta da parte della magistratura.  La chiave di lettura della magistratura di Pavia e di Palermo è condivisibile.

   Nell’ipotesi che Enrico Mattei sia rimasto vittima di un tragico disastro aereo,[25] la pubblicistica sul “caso Mattei” che si sviluppò e si diffuse tra il 1968 e il 1972 potrebbe essere interpretata come una campagna denigratoria nei confronti di Eugenio Cefis, dove è stato fatto un uso strumentale sia della morte di Enrico Mattei e sia della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Dunque, da questo punto di vista, Eugenio Cefis, in un momento particolare della sua carriera imprenditoriale, fu vittima di una montatura giornalistica. I tentativi di Cefis di comprare il silenzio di alcuni giornalisti i quali, attraverso le loro pubblicazioni miravano a rinfocolare sia i dubbi sulla tragica scomparsa del fondatore dell’ENI e sia un suo coinvolgimento nella presunta congiura, possono anche essere interpretati come la semplice volontà del manager di porre un freno alle fastidiose calunnie e insinuazioni che potevano denigrare la sua persona e il suo operato. Tale chiave interpretativa può essere corretta, se si tiene in considerazione il fatto che Eugenio Cefis era un uomo la cui personalità era caratterizzata dalla volontà di cercare di rimanere lontano dalle cosiddette scene e di svolgere il suo lavoro di manager nell’ombra. Proprio questo aspetto dell’uomo è stato oggetto di speculazioni in senso negativo; speculazioni che sono state ridimensionate da Paolo Morando nel suo studio. Il saggista, infatti, ha messo in dubbio le tante vulgate su Eugenio Cefis che si sono fissate negli anni. Non c’è nessuna prova che Cefis abbia fondato la loggia massonica Propaganda 2 (P2), in quanto il documento che lo indica come colui che ne sarebbe stato il fondatore è solamente un allegato ad un appunto del SISMI da passare al vaglio critico prima di scrivere la vera e propria nota informativa, ed è lo stesso PM Calia a dubitare dell’attendibilità del documento; il romanzo Petrolio di Pier Paolo Pasolini, dove l’autore traspone la vicenda e i personaggi del “caso Mattei” alterando i nomi (Ernesto Bonocore per Mattei e Troya per Cefis), insinuando un coinvolgimento di Cefis nella congiura di cui fu vittima il fondatore dell’ENI,[26] è basato in gran parte su un libro ricattatorio (Questo è Cefis, scritto da un inesistente Giorgio Steimetz, che Pier Paolo Pasolini lesse), pubblicato nel 1972 ed edito dall’Agenzia Milano Informazioni (AMI) di Corrado Ragozzino.[27] L’agenzia era finanziata anche da Graziano Verzotto, il quale all’epoca era il presidente dell’Ente Minerario Siciliano (EMS). Proprio tra l’EMS e L’ENI, e quindi tra Verzotto e Cefis, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, ci fu uno scontro per la questione della realizzazione del metanodotto che dall’Algeria avrebbe dovuto portare il metano in Sicilia. Verzotto aveva intenzione di portare il metano algerino costruendo un metanodotto con l’ente da lui presieduto. Alla fine della vicenda il braccio di ferro tra Verzotto e l’ENI venne vinto dall’ente di Stato e dieci anni dopo, l’ENI, costruirà in proprio il metanodotto dall’Algeria. Per l’ENI avere il monopolio sul metano era fondamentale, perché dalla rendita metanifera provenivano i fondi neri utilizzati per il finanziamento illecito ai partiti.[28] Racconta Verzotto:

Tale progetto fu voluto e portato avanti – tra mille difficoltà – da me e dall’Ente Minerario Siciliano del quale ero presidente dal 1967. Il progetto era nato e aveva preso corpo verso la fine degli anni sessanta. Per la sua realizzazione era nata la SONEMS, al cui capitale inizialmente partecipavano alla pari la algerina SONATRACH e l’Ente Minerario Siciliano. Solo successivamente, la composizione della SONEMS, per l’intervento di forze politiche nazionali e regionali, mutò nel modo che segue: SONATRACH 50%, EMS 26%, il Banco di Sicilia (4%) e l’ENI (20%). Tale nuova composizione avrebbe permesso all’ENI di controllare direttamente e di ritardare quello che noi facevamo per giungere alla realizzazione del progetto: progettazione degli impianti e determinazione del prezzo del metano. L’ENI e il suo presidente (prima Cefis e poi Girotti) erano infatti decisamente contrari a tale progetto e, come ho già detto, al fine di impedirne o quanto meno di ritardarne la realizzazione, avevano appunto ottenuto dal Governo di partecipare alla SONEMS. Era quindi nata una accesa disputa, tra l’EMS e l’ENI, sulla fattibilità e sulla convenienza del controverso metanodotto. Io, l’intero Consiglio di Amministrazione dell’EMS, Nino Rovelli, nonché quasi tutte le personalità politiche siciliane eravamo convinti che l’opposizione dell’ENI era dettata dalla necessità di ammortizzare il costo delle metaniere costruite per trasportare il gas dall’Africa all’Italia, attraverso due impianti: di liquefazione, in Africa e di rigassificazione a Panigaglia (SP). Voglio anche aggiungere che l’ENI, allo scopo di mantenere in piedi le metaniere e di stroncare ogni velleità di costruire il metanodotto, aveva anche proposto – prima di rilevare l’intero pacchetto azionario dell’EMS nella SONEMS – la costruzione di un secondo impianto di rigassificazione a Gela. Ricordo che l’Ora di Palermo, dopo il 1970, aveva dato notizia di questa intenzione dell’ENI con un articolo, titolato a caratteri cubitali “IL CANE A SEI ZAMPE DIVORA VERZOTTO”. Si trattava, evidentemente, di un affare enorme e all’epoca si diceva, e io ne ero intimamente convinto, che la società armatrice delle metaniere, oltre al petroliere Angelo Moratti,  avesse anche, come soci occulti, lo stesso Cefis e il presidente della Esso Italia Vincenzo Cazzaniga. Non ricordo se tale informazione mi venne fornita da Nino Rovelli o dal professor Rocca, presidente della SONEMS. Solo dieci anni dopo l’ENI aveva realizzato in proprio il discusso metanodotto. Ciò conferma la pretestuosità della precedente vivace opposizione dell’Ente petrolifero nazionale. La vicenda De Mauro si sviluppa in tale contesto. L’ufficio stampa dell’EMS mi aveva informato che era in corso una campagna di opposizione alla presidenza ENI: erano infatti già scaduti i vertici dell’ENI e si era in attesa della loro riconferma o sostituzione. Era inoltre stata avviata la scalata dell’ENI alla Montedison. Molti ambienti politici ed economici miravano alla presidenza dell’ENI: il controllo di tale ente determinava, in sostanza, del maggior flusso di aiuto ai partiti nazionali e, quindi, la possibilità di controllare le decisioni politiche del paese. In tale campagna si inserivano il libro di Bellini e Previdi ‘L’assassinio di Enrico Mattei’ e il film di Francesco Rosi, ‘Il caso Mattei’. Io avevo ritenuto che era mio dovere, quale aderente a una corrente DC (Gullotti) che si opponeva alla corrente ‘fanfaniana’ (cui faceva riferimento Eugenio Cefis), nonché quale presidente dell’EMS (come tale direttamente interessato alla realizzazione del metanodotto), dare un fattivo contributo per contrastare chi si opponeva al più volte citato progetto di realizzazione del metanodotto. Non va dimenticato che l’ENI si opponeva alla realizzazione del nostro metanodotto anche allo scopo di non perdere il monopolio sul metano. Il metano, definito come la Zecca dell’ENI, era infatti un’imponente strumento di autofinanziamento per l’ente petrolifero nazionale e, quindi, di raccolta di risorse per il finanziamento della politica. Tra gli oppositori al progetto di metanodotto si stagliava, naturalmente, il presidente dell’ENI. La mia posizione era pienamente accettata e politicamente sostenuta dall’on. Gullotti e dalla stessa Regione Sicilia. E’ evidente quindi che un’eventuale alternanza alla presidenza dell’ENI avrebbe eliminato il più fiero e potente oppositore al progetto del metanodotto. L’appoggio di Gullotti venne meno, con un vero e proprio voltafaccia, quando Cefis promise, allo stesso Gullotti, la presidenza del Consiglio o, in alternativa, del gruppo parlamentare D.C. alla camera, in cambio della quota EMS nella SONEMS. Tale vicenda mi venne raccontata dal segretario particolare del ministro Gullotti, dott. Luigi Cheli (che attualmente vive in America) al quale io avevo chiesto spiegazioni del voltafaccia. Quasi tutta la stampa nazionale era allineata sulle posizioni dell’ENI, perché direttamente o indirettamente finanziata dall’ente: Eugenio Cefis era infatti definito come “il grande elemosiniere”. Lo definiva così in particolare Nino Rovelli il quale, politicamente sostenuto da Giulio Andreotti, Guido Carli e Giovanni Leone, ambiva a rimpiazzare Cefis nel controllo dei finanziamenti ai partiti. Rovelli e i politici che lo sostenevano ritenevano infatti Cefis troppo potente in quanto controllava direttamente la MONTEDISON e gestiva l’ENI tramite Girotti. Le avvisaglie di questo eccesso di potere da parte di Cefis già si manifestavano ben prima della scomparsa di De Mauro, quando iniziava la scalata dell’ENI a MONTEDISON. Il nostro progetto e la nostra posizione politica erano sostenuti dall’agenzia ‘Roma Informazioni’ di Matteo Tocco, non so se collegata a ‘Milano Informazioni’. Tale agenzia era la sola che in quel momento non riceveva ‘sussidi’ dall’ENI, essendo invece finanziata dall’EMS [….]. Successivamente De Mauro aveva ricevuto incarico da Rosi di raccogliere del materiale riguardante le ultime due giornate di Mattei in Sicilia, da utilizzare nella sceneggiatura del film ‘Il caso Mattei’. Io ero consapevole che tale film poteva essere uno strumento per sostenere e alimentare la campagna che l’ente da me presieduto intendeva portare avanti contro la presidenza dell’ENI e contro coloro che si opponevano alla realizzazione del metanodotto. Avevo pertanto avuto diversi contatti con De Mauro per aiutarlo a ricostruire i due giorni di permanenza di Mattei in Sicilia e per indirizzare utilmente – in chiave di contrasto all’allora presidente dell’ENI (Cefis) – il suo lavoro per Rosi.[29]


[1] Cfr. Archivio Storico della Fondazione Giacomo Mancini, fondo Giacomo Mancini, serie 3 rassegna stampa e documentazione, sottoserie 6 processi, querele, scandali, varie, sottoserie 9 Scandalo ANAS.

[2] Per quanto riguarda la storia del settimanale Candido dal periodo di Guareschi al periodo di Pisanò è stato consultato un corposo fascicolo intestato al settimanale, contenente documenti e numerosi articoli di giornale che riguardano le vicende giudiziarie nelle quali Pisanò rimase coinvolto (cfr. Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del consiglio dei ministri, fondo servizi informazioni e ufficio proprietà letteraria artistica e scientifica, subfondo divisione stampa italiana, serie 2-3 periodici, b. 5, fasc. 186 “Candido. Periodico Milano”). Per approfondire la vicenda Guareschi-De Gasperi cfr. MIMMO FRANZINELLI, Bombardate Roma! Guareschi contro De Gasperi: uno scandalo della storia repubblicana, Milano, Mondadori, 2014.

[3] FULVIO BELLINI, Il Secolo XX, Enrico Mattei è stato assassinato, 19 marzo 1963; Enrico Mattei è stato assassinato. Attorno a questa fossa la congiura della menzogna, 26 marzo 1963; Enrico Mattei è stato assassinato. La telefonata della morte, 2 aprile 1963.

[4] Cfr. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pavia, Procedimento penale n. 2471/62 R.G. Procura di Pavia; Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pavia, Requisitoria del P.M. in allegato al fascicolo nr. 2471/62, pp. 284-300; Cfr. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pavia, Sentenza del Giudice Istruttore Antonino Borghese in allegato al fascicolo nr. 2471/62, pp. 310-321.

[5] Archivio della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pavia, procedimento penale 181/94, busta contenente nr. 78 fogli dattiloscritti riguardanti vicende relative al caso Mattei. Queste notizie biografiche – finora inedite – su Fulvio Bellini, provengono da un fascicolo che era a disposizione del PM Vincenzo Calia. I documenti vennero recuperati presso la famiglia del Com.te Irnerio Bertuzzi: tale documentazione – come viene specificato sul fascicolo – è di provenienza ignota. Infatti, le informazioni su Fulvio Bellini sono scritte da un autore anonimo che riferisce, in nota, di riportare una fonte orale (anch’essa anonima) raccolta a Milano nel 1970. Allo stesso fascicolo, è allegata una copia del diario della guardia del corpo di Enrico Mattei, Rino Pachetti. Il magistrato, sia nel suo libro e sia nella sua relazione delle richieste trasmesse al GIP Dott. Fabio Lambertucci, riporta e spiega la provenienza della parte di documentazione che riguarda la copia del diario di Rino Pachetti. Il dossier contenente notizie negative sul giornalista Fulvio Bellini, viene completamente omesso dal magistrato (cfr. Procura della Repubblica presso il tribunale di Pavia, Vincenzo Calia, Richieste del Pubblico Ministero (ai sensi dell’art. 415 c.p.p.), Procedimento penale n.181/94 mod. 44. Le indagini sono state svolte dai marescialli Enrico Guastini, Antonio Trancuccio e dall’appuntato Giovanni Pais, dei Carabinieri di Pavia, pp. 185-192 e cfr. VINCENZO CALIA, SABRINA PISU, Il caso Mattei. Le prove dell’omicidio del presidente dell’Eni dopo bugie, depistaggi e manipolazioni della verità, Milano, Chiarelettere, 2017, pp. 27-34).  Questo dossier è probabile (ma non è dato saperlo con certezza) che provenga dall’ENI e da Franco Briatico, che per anni è stato al fianco di Eugenio Cefis e svolse con impegno l’attività di contrastare i tentativi di denigrare – da parte di taluni – la persona e l’operato di Eugenio Cefis. Di un dossier contenete informazioni negative su Bellini se ne parla nella sentenza della Corte d’Assise del Tribunale di Palermo: viene riportata una testimonianza del giornalista Pietro Zullino. Il giornalista riferisce che nel marzo 1971 si era messo in contatto con Franco Briatico, capo dell’ufficio stampa dell’ENI, per avere notizie su Fulvio Bellini e Alessandro Previdi e sulla loro monografia L’assassinio di Enrico Mattei. Zullino riferisce di aver avuto da Briatico un fascicolo contenente informazioni negative sul passato politico di Fulvio Bellini (cfr. Tribunale di Palermo, Sentenza della Corte d’Assise, Procedimento De Mauro, pp. 1325-1326).

[6] Cfr, ALVES MARCHI, ROBERTO MARCHIONATTI, Montedison 1966-1989. L’evoluzione di una grande impresa al confine tra pubblico e privato, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 25-30.

[7] Cfr. ivi, p. 31.

[8] Cfr. ivi, pp. 31-33.

[9] Cfr. ivi, pp. 38-41.

[10] Cfr. ivi, pp. 41-44.

[11] FULVIO BELLINI, ALESSANDRO PREVIDI, L’assassinio di Enrico Mattei, Milano, Edizioni Flan, 1970.

[12] Procura della Repubblica presso il tribunale di Pavia, Vincenzo Calia, op. cit., p. 1 nota n. 4.  

[13] Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano l’Ora, venne rapito da Cosa Nostra la sera del 16 settembre 1970 e da allora il suo corpo non fu mai ritrovato. Le indagini, già all’epoca dei fatti, presero strade diverse: i Carabinieri, sotto la guida di Carlo Alberto dalla Chiesa, ritenevano che le ragioni del rapimento di De Mauro risiedessero nelle scoperte che il giornalista avrebbe fatto sui traffici di stupefacenti gestiti dalla mafia; la Polizia, invece, guidata da Boris Giuliano, era convinta che De Mauro fosse stato rapito perché, probabilmente, aveva scoperto qualcosa di importante sulla morte di Enrico Mattei. Il giornalista, infatti, nei mesi precedenti al suo rapimento aveva ricevuto l’incarico dal regista Francesco Rosi, che a sua volta stava lavorando al suo film su Mattei che sarebbe uscito due anni dopo, di ricostruire le due ultime giornate che il presidente dell’ENI aveva trascorso in Sicilia. De Mauro si sarebbe spinto molto oltre il compito che il regista gli aveva affidato e avrebbe scoperto qualcosa di compromettente sulla morte di Mattei, e tale scoperta aveva spinto Cosa Nostra, che in questo caso agiva per conto di qualcuno, a rapire il giornalista per metterlo a tacere. Un’altra tesi nel “caso De Mauro”, emersa in anni più recenti grazie a delle dichiarazioni fatte da alcuni pentiti di mafia, tra cui Francesco di Carlo e Gaspare Mutolo, è quella del golpe Borghese. Secondo questa tesi, De Mauro sarebbe stato rapito dalla mafia a causa di quello che avrebbe scoperto sul golpe Borghese, ossia sul tentato colpo di stato organizzato dal principe Junio Valerio Borghese con la collusione di alcuni reparti dell’esercito italiano. L’obiettivo era quello di prendere il controllo dell’Italia rovesciando il governo. Il tentato golpe venne messo in atto tra la notte del 7 e dell’8 dicembre 1970, ma, per ragioni che non sono mai state chiarite, Borghese diede all’improvviso l’ordine di annullare tutto. Nell’operazione avrebbe avuto un ruolo di supporto anche la mafia, a cui Borghese aveva promesso in cambio dell’aiuto nella realizzazione del colpo di stato, l’annullamento degli ergastoli e dei processi a carico di diversi componenti di Cosa Nostra. De Mauro, stando a quanto dichiarato da Francesco di Carlo e da Gaspare Mutolo, avrebbe scoperto tre mesi prima il progettato colpo di stato e la collaborazione della mafia in tale progetto sovversivo. Per evitare che egli rivelasse tutto quello che aveva scoperto e impedirgli di conseguenza di compromettere l’operazione, si decise di metterlo a tacere (cfr. Tribunale di Palermo, Sentenza della Corte d’Assise, Procedimento De Mauro, op. cit.).

[14] Candido, Mauro de Mauro: gli assassini di Enrico Mattei colpiscono ancora, 5 novembre 1970; Candido, Gli assassini di Enrico Mattei colpiscono ancora. Ecco perché venne assassinato il presidente dell’ENI, 12 novembre 1970; Candido, Mauro de Mauro: gli assassini di Enrico Mattei colpiscono ancora. Di chi ha paura Graziano Verzotto?, 19 novembre 1970; Candido, Caso de Mauro-Mattei, Vito Guarrasi. Il signor X, 26 novembre 1970; Candido, L’aereo di Enrico Mattei si disintegrò in volo in seguito ad un atto di sabotaggio. Ecco la prova che non ci fu un’esplosione al suolo, 26 novembre 1970; Candido, Mauro de Mauro: gli assassini di Enrico Mattei colpiscono ancora. La chiave del mistero, 3 dicembre 1970.

[15] Candido, Lo stato si è impossessato anche della Montedison. Italiani, sveglia: ci stanno fregando, 21 ottobre 1968; Candido, Italiani, sveglia: ci vogliono fregare. Piano piano, con la vaselina ci stanno portando oltre cortina, 31 ottobre 1968; Candido, Italiani, sveglia: ci vogliono fregare. Ed ora al contrattacco si può ancora vincere, 4 novembre 1968; Candido, Alt agli enti di Stato. Già raccolti 15 milioni di azioni, 5 novembre 1968; Candido, Italiani, sveglia: ci vogliono fregare. Montedison verso il sindacato di voto, 14 dicembre 1968; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Costituito il comitato promotore, 21 novembre 1968; Candido, Montedison. Non lasciamoci intimidire, 28 novembre 1968; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Aumenta il ritmo delle adesioni, 12 dicembre 1968; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Attenzione ai sabotatori, 9 gennaio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Diffidare dalle imitazioni, 16 gennaio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Se vince l’IRI è finita, 30 gennaio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Gli squali dell’ENI, 6 febbraio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. I nostri obbiettivi, 13 febbraio 1969; Candido, Alt agli enti di Stato. Lettera aperta all’on. Rumor, 20 febbraio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Azionisti non arrendetevi, 27 febbraio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. L’enigma Valerio, 6 marzo 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. I risultati del “referendum segreto”, 13 marzo 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Contare solo su noi stessi, 20 marzo 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Ingegner Valerio, lei deve andarsene, 27 marzo 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Il Valerio dei miracoli e lo specchietto per le allodole, 10 aprile 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. L’assemblea è vicina. Ecco i provvedimenti da prendere, 17 aprile 1969; Candido, Montedison alt agli enti di Stato. Sarà un’assemblea infuocata: gli statizzatori non debbono passare, 21 aprile 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Non deve passare la modifica all’art. 12, 1 maggio 1969; Candido, Montedison: abbiamo vinto, 8 maggio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Riprende la lotta. Il boicottaggio delle banche, 13 maggio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Le deliberazioni dell’ADA, 22 maggio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Stringersi attorno all’azienda, 29 maggio 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Si allarga il campo di azione, 5 giugno 1969; Candido, Montedison: seconda fase. Mobilitazione generale, 26 giugno 1969; Candido, Montedison: seconda fase. Primi risultati positivi, 10 luglio 1969; Candido, Montedison: seconda fase. Agli americani si, a noi no, 25 settembre 1969; Candido, Montedison: seconda fase. Che cosa sta accadendo alla Montecatini-Edison?, 18 novembre 1969; Candido, Montedison: seconda fase. La tregua è finita, 20 novembre 1969; Candido, Montedison: seconda fase. Le fette del salame, 11 dicembre 1969; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. Non siamo dei fessi, signori dell’ENI, e i vostri piani li conosciamo; Candido, Montedison: alt agli enti di Stato. L’iniziativa dilaga ovunque.

[16] Cfr. Archivio Storico della Fondazione Giacomo Mancini, fondo Giacomo Mancini, serie 3 rassegne stampa, sottoserie 6 processi, querele, scandali, varie, sottoserie 9 scandalo ANAS, pp. 27-33.

[17]  Cfr. Archivio Storico Istituto di Studi Storici Filippo Turati, fondo PSI, Sezione Problemi dello Stato, b. 10, fasc. 17. 

[18] Cfr. DIEGO CUZZI, Breve storia dell’Eni. Da Cefis a Girotti, Bari, De Donato editori, 1975, pp. 55-88.

[19] Per una biografia di Francesco Forte Cfr. FRANCESCO FORTE, A onor del vero. Un’autobiografia politica e civile, Catanzaro, Rubbettino, 2017.

[20]  Cfr. Archivio Storico Istituto di Studi Storici Filippo Turati, fondo PSI, Sezione Problemi dello Stato, b. 10, fasc. 27, pp. 1-2.

[21] Candido, I delitti del regime. Enrico Mattei. Fu Graziano Verzotto, poi divento senatore DC, ad organizzare in Sicilia nell’ottobre 1962, l’assassinio del presidente dell’ENI: ecco in proposito, per la prima volta, la testimonianza del fratello di Mattei, 27 settembre 1979; Candido, I delitti del regime. Tutti gli uomini della congiura, 4 ottobre 1979; Candido, I delitti del regime. Come e da chi venne nascosta la verità, 11 ottobre 1979; Candido, I delitti del regime. Il colonnello che sapeva troppo, 18 ottobre 1979; Candido, I delitti del regime. Un “suicidio” pilotato, 25 ottobre 1979; Candido, I delitti del regime. Il rapimento De Mauro, 1 novembre 1979; Candido, I delitti del regime: dal delitto Mattei al rapimento De Mauro. Operazione linciaggio, 15 novembre 1979; Candido, I delitti del regime. Nino Buttafuoco: un segreto ben custodito, 22 novembre 1979; Candido, I delitti del regime. L’armistizio mafioso sulla pelle di De Mauro, 29 novembre 1979; Candido, I delitti del regime. Il segreto di Scaglione; Candido, I delitti del Regime. La sfida mortale del procuratore, 13 dicembre 1979; Candido, I delitti del Regime. E poi toccò a Scaglione, 20 dicembre 1979; Candido, I delitti del regime. Mentre Scaglione moriva nel suo ufficio…27 dicembre 1979; Candido, I delitti del regime. Entra in scena il questore Mangano, 10 gennaio 1980; Candido, I delitti del regime. Guarrasi: la testa di serpente, 17 gennaio 1980; Candido, I delitti del regime. L’affare Verzotto, 24 gennaio 1980; Candido, I delitti del regime. I retroscena della fuga di Verzotto, 31 gennaio 1980; Candido, I delitti del regime. L’eccidio della Ficuzza, 7 febbraio 1980; Candio, I delitti del regime. La fine di “Peppe il sanguinario”, 14 febbraio 1980; Candido, I delitti del regime. E poi toccò anche a Giuliano e Terranova, 24 febbraio 1980; Candido, I delitti del regime. E adesso a chi tocca…?, 28 febbraio 1980.

[22] Deposizione di Fulvio Bellini del 2 febbraio 1998.

[23] Cfr. Tribunale di Palermo, Sentenza della Corte d’Assise, Procedimento De Mauro, pp. 1310-1584.

[24] Procura della Repubblica presso il tribunale di Pavia, Vincenzo Calia, op. cit., pp. 1-2 nota n. 4.  

[25] Recenti studi, hanno messo in dubbio la tesi del sabotaggio, e dunque, è stata messa in dubbio la tesi dell’attentato. Nell’indagine del Dott. Calia, sembra rivestire molto importanza la tesi della presenza dei due Morane-Saulnier 760 che appartenevano, a quel tempo, alla flotta aziendale dell’ENI, e che si distinguevano soltanto per le marche di registrazione (I-SNAI e I-SNAP). Il magistrato nella sua ricostruzione dei fatti, sostiene che il 26 e il 27 ottobre 1962, entrambi gli aeromobili erano presenti in Sicilia. L’I-SNAP sarebbe stato sabotato con una bomba collegata al circuito che consentiva al carrello di fuoriuscire durante la notte tra il 26 e il 27 ottobre 1962. La mattina del 27 ottobre, mentre l’I-SNAP sarebbe rimasto fermo per tutto il tempo fino alla sua partenza per Linate avvenuta alle 16,57, l’I-SNAI avrebbe effettuato un volo Catania-Gela-Gela-Catania. Nuovi documenti, che testimoniano i movimenti sia dell’unico pilota che avrebbe potuto pilotare il secondo Morane-Saulnier 760 (Com.te Ferdinando Bignardi) e sia dell’aeromobile I-SNAI, dimostrano l’assenza sia del pilota che di quello specifico aereo nei giorni 26 e 27 ottobre 1962. Se ne deduce che il volo Catania-Gela e ritorno deve essere attribuito all’I-SNAP. Orbene, se I-SNAP ha volato la mattina del 27 ottobre 1962 senza esplodere estraendo per ben due volte il carrello per atterrare, non è possibile il fatto che un ordigno sia stato collegato la notte precedente al circuito che permetteva al carrello di fuoriuscire (cfr. LUPO RATTAZZI, Il caso Mattei: anatomia di una fantasiosa ricostruzione di un presunto attentato in www.casomattei.com).

[26] Scrive Pasolini nel suo romanzo incompiuto Petrolio: «Troya emigrato a Milano nel 1943, fu colto non impreparato alle proprie scelte, a quanto pare, dalla fine del fascismo e dall’inizio della Resistenza. C’era una formazione mista degasperiana e repubblicana che lottava sui monti della Brianza. Il capo di quella formazione partigiana era l’attuale presidente dell’ENI, Ernesto Bonocore. (Sia Troya che Bonocore, come il lettore avrà notato, non sono due cognomi settentrionali: si trattava effettivamente di immigrati. Quelle che erano settentrionali erano le madri: una certa Pinetta Sprìngolo di Sacile, per Troya, e una certa Rosa Bonali, di Bascapè per Bonocore). Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull’ENI”, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria […]. La cosa che vorrei sottolineare è la seguente: Troya nella formazione partigiana era secondo. E la cosa pareva gli si addicesse magnificamente fin da allora. Non vorrei mitizzare: ma Troya non ci teneva a primeggiare per primeggiare. Era qualcosa di più che ambizioso. Non aveva dunque la debolezza degli ambiziosi: la sua vita, il suo aspetto, il suo comportamento erano grigi, o, per meglio dire, ascetici. Lo erano sempre stati. In qualità di “secondo” (vicecomandante o vicepresidente) la sua tendenza ascetica a “realizzare” si attuava molto meglio […]. Dunque, Troya è attualmente vicepresidente dell’ENI. Ma questa non è che una posizione ufficiale, premessa per un ulteriore balzo in avanti […]. In questo preciso momento storico Troya sta per essere fatto presidente dell’ENI: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo […]» (PIER PAOLO PASOLINI (a cura di MARIA CARERI e WALTER SITI), Petrolio, Milano, Garzanti, 2022, pp. 125-146).

[27] L’Agenzia Milano Informazioni (AMI) era un’agenzia stampa che diramava notizie relative al commercio, alle operazioni di borsa, all’industria, alla finanza e all’economia. Il direttore, Corrado Ragozzino, nel 1932 venne espulso dal Partito Nazionale Fascista per indegnità politica e morale, sottoposto, in seguito, a riservata vigilanza perché segnalato come elemento di equivoca condotta morale per aver avuto rapporti con antifascisti. Nel 1939, proveniente da Parigi, ove si era recato per la sua attività industriale, venne fermato per sospetta attività affaristica in materia d’importazione ed esportazione di merci contingentate. Nel 1940 inoltrò domanda di riammissione al PNF dal quale era stato espulso, vantando allo scopo la qualifica di legionario fiumano, la sua richiesta però non venne accolta. Ragozzino, successivamente a questa epoca, non ha più dato rilievi con la sua condotta in genere. Nel periodo del Secondo dopo guerra, fu componente milanese della DC. La sua agenzia AMI, sarebbe finanziata da un gruppo di industriali milanesi facenti capo alla Confindustria ed è orientata verso la DC (cfr. ACS, Presidenza del consiglio dei ministri, fondo servizi informazioni e ufficio proprietà letteraria artistica e scientifica, subfondo divisione stampa italiana, serie 2-5 agenzie di stampa, b.6, fasc. 145 “AMI Agenzia Milano Informazioni”).

[28] Per approfondire la biografia di Eugenio Cefis cfr. PAOLO MORANDO, Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri, Roma-Bari, Laterza, 2021. Per approfondire le genesi del romanzo Petrolio e il romanzo stesso cfr. GIORGIO STEIMETZ (a cura di CARLA BENEDETTI e GIOVANNI GIOVANNETTI), Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, Milano, Effige Edizioni, 2010 e cfr. PIER PAOLO PASOLINI, op. cit.

[29]  Procura della Repubblica presso il tribunale di Pavia, Vincenzo Calia, op. cit., pp. 344-349.

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