Il mercato petrolifero mondiale negli anni Cinquanta
Negli anni Cinquanta la domanda per i prodotti petroliferi destinati alla produzione di energia aumentò notevolmente; questo incremento fu dovuto al crescente livello di industrializzazione dei Paesi appartenenti al mondo sviluppato, che avevano bisogno di petrolio per mandare avanti le loro industrie e i trasporti e sentivano la necessità di sostituire il carbone, una fonte di energia che presentava costi di estrazione più elevati ed era meno efficiente del petrolio. Le aree del mondo sviluppate da un punto di vista industriale che iniziavano a dipendere fortemente dal petrolio, e di conseguenza dalla sua importazione, erano gli Stati Uniti d’America, l’Europa occidentale e il Giappone. L’Europa occidentale già nel 1955 presentava un tasso di dipendenza dalle importazioni di greggio superiore al 90%, e anche gli Stati Uniti d’America negli anni Cinquanta iniziarono a dipendere dalle importazioni, nonostante essi fossero, in quel periodo, tra i maggiori produttori di petrolio. Gli Stati Uniti, essendo anche tra i maggiori consumatori, avendo un elevato grado di industrializzazione, non potevano contare solamente sulle proprie riserve per poter soddisfare la domanda interna. Da qui la necessità di importare il petrolio, anche con la finalità di non esaurire le proprie riserve; a questo scopo rispondeva anche la loro politica di limitare le esportazioni del petrolio americano. Dunque le maggiori potenze mondiali, anche quelle che avevano una produzione interna di greggio, erano costrette a rivolgersi ai Paesi produttori di petrolio per l’approvvigionamento sicuro della preziosa fonte di energia. Negli anni Cinquanta i Paesi i cui pozzi producevano una ingente quantità di greggio ed erano disponibili a esportarlo verso il mondo sviluppato erano l’Iran, l’Iraq, l’Arabia Saudita, il Kuwait (Medio Oriente), il Venezuela e il Messico (America Latina); il Venezuela e il Messico rifornivano principalmente gli Stati Uniti e il Giappone, mentre i Paesi del Medio Oriente indirizzavano il loro petrolio verso l’Europa occidentale, anche se pure gli Stati Uniti usufruivano del petrolio mediorientale.[1]
Per quanto concerne i bisogni energetici dell’Italia negli anni Cinquanta, il rapido sviluppo economico e industriale del Paese, caratterizzato da una grande espansione del settore meccanico e automobilistico che impresse un forte impulso alla domanda di energia, fece salire in maniera notevole i consumi di petrolio. Il crescente fabbisogno di questa fonte di energia mise l’Italia nella condizione di rivolgersi ai Paesi produttori che gli erano più vicini da un punto di vista geografico, ovvero i Paesi del Medio Oriente. La scelta di rivolgersi al Medio Oriente non era dettata dalla sola convenienza economica rappresentata dalla vicinanza geografica: l’Italia, come del resto l’Europa occidentale, era costretta a rivolgersi ai Paesi mediorientali dato che il petrolio del Venezuela e del Messico, oltre ad essere più costoso, era utilizzato dal Giappone e dagli Stati Uniti e, come già detto, il petrolio prodotto in USA non veniva esportato, così come non veniva esportato il petrolio prodotto in Unione Sovietica se non in una quantità ridotta. In definitiva: dato che all’Italia e agli altri Paesi dell’Europa occidentale (Francia, Gran Bretagna, Olanda, Germania e Belgio) non era accessibile il mercato Statunitense e Sovietico, per forza di cose dovevano rivolgersi al Medio Oriente, che, oltre ad essere geograficamente più vicino, era l’unico mercato disponibile per essi. Infatti la situazione dell’Italia, per quanto riguarda l’approvvigionamento di petrolio, era caratterizzata da una forte dipendenza dalle importazioni di greggio mediorientale, come dimostra il fatto che nel 1957, sul totale di petrolio importato, l’87,5% proveniva dal Medio Oriente.[2]
Per quanto riguarda la produzione di petrolio interna dell’Italia questa era, se non assente, irrisoria e totalmente insufficiente per soddisfare i bisogni energetici del Paese. L’Italia, dal canto suo, per una produzione propria di energia poteva contare o sulle centrali elettriche o sulle riserve metanifere, specialmente quelle della Valle Padana, ma anche con tali fonti di energia non si riusciva a soddisfare la domanda che crebbe durante tutti gli anni Cinquanta. Dunque in Italia c’era un forte divario fra produzione interna di energia e importazioni, rendendo il Paese totalmente dipendente da queste ultime. A offrire un quadro chiaro e preciso su questa situazione dell’Italia negli anni Cinquanta è Alberto Tonini:
Il bilancio energetico nazionale rivelava un crescente squilibrio fra la produzione interna di energia e il ricorso alle importazioni: nel 1950 queste ultime coprivano il 62 per cento della domanda, mentre nel 1957 la quota delle importazioni garantiva ormai il 78 per cento del fabbisogno. La produzione interna crebbe (grazie essenzialmente allo sviluppo di nuove centrali elettriche e alla produzione di gas naturale), ma a un ritmo insufficiente rispetto all’espansione della domanda. La produzione interna di greggio rappresentava una quota minima della disponibilità totale di energia (lo 0,05 per cento nel 1950, l’1,7 nel 1956), mentre le importazioni di petrolio crescevano a un ritmo ben superiore: nel 1950 questa voce copriva il 28,2 per cento del fabbisogno di prodotti energetici, nel 1956 era salita al 49,7.[3]
Da quanto si è andato dicendo fino a qui si evince come l’Italia fosse un Paese dipendente dalle importazioni di petrolio, in particolare da quello mediorientale. L’accesso dell’Italia al greggio del Medio Oriente avverrà grazie all’azione dell’ENI di Enrico Mattei, che stipulerà accordi diretti con tali Paesi produttori. Proprio il dover garantire all’Italia l’ingresso alle riserve petrolifere mediorientali metterà l’ENI di Mattei nella condizione di entrare in competizione con il cartello delle sette sorelle, ovvero le più grandi società petrolifere del mondo che avevano stabilito la loro presenza in Medio Oriente.
Il cartello delle sette sorelle
Nel momento storico in cui Mattei era presidente dell’ENI il cartello[4] delle sette sorelle era formato dalle sette compagnie petrolifere più importanti a livello mondiale, cinque di esse erano americane, una inglese e una anglo-olandese. È fondamentale ricordare i loro nomi: Standard Oil of New Jersey, conosciuta come Esso (americana); Standard Oil of New York, conosciuta come Mobil (americana); Texas Oil Company, conosciuta come Texaco (americana); Standard Oil of California, conosciuta come Chevron (americana); Gulf Oil (americana); Anglo Persian Oil Company, conosciuta come British Petroleum (inglese); Royal Dutch Shell, conosciuta come Shell (anglo-olandese). L’origine del cartello delle sette sorelle può essere fatto risalire al 1928, anno in cui queste compagnie stipularono tra di loro due accordi segreti che divennero di dominio pubblico soltanto negli anni Cinquanta. Il primo accordo è passato alla storia come l’Accordo della Linea Rossa e venne siglato durante una riunione ad Ostenda, in Belgio. Dato che dopo il Primo conflitto mondiale l’Impero ottomano si dissolse, l’area geografica della Valle del Tigri e dell’Eufrate divenne una zona di conquista petrolifera da parte di inglesi, olandesi e americani (quest’ultimi entravano per la prima volta in Medio Oriente). Calouste Gulbenkian, il più grande mediatore petrolifero di tutti i tempi, durante la riunione avvenuta ad Ostenda, riuscì a mettere d’accordo le sette compagnie circa lo sfruttamento delle aree del Medio Oriente che un tempo formavano l’Impero ottomano, disegnando con una matita rossa sopra una carta geografica i perimetri delle future zone di estrazione al cui interno le grandi compagnie non potevano farsi concorrenza, ma al contrario dovevano lavorare in reciproca collaborazione. Le aree geografiche delimitate da Gulbenkian corrispondevano agli attuali territori di Turchia, Iraq, Siria, Giordania, Libano, Israele e l’intera penisola araba ad esclusione del Kuwait. Vennero inoltre stabilite due regole: la prima prevedeva che quell’area geografica diventasse un’esclusiva area di sfruttamento delle sette compagnie, e, a tale scopo, venne creata la Iraq Petroleum Company (IPC), una società consorzio a cui partecipavano con delle quote le sette major, in particolare la Mobil, la Esso, la Shell, la BP e la francese Compagnie Nationale Des Petroles (la futura Total); la seconda regola stabiliva che se in futuro qualcuno avesse tentato l’ingresso in quell’area che era stata riservata alle grandi compagnie, tale tentativo di ingresso doveva essere bloccato. A questo punto le sette sorelle controllavano tutti i giacimenti noti del vicino Oriente, e Gulbenkian, per la sua grande opera di mediazione, chiese ed ottenne il 5% di ogni contratto.[5]
Il secondo accordo venne siglato il 17 settembre 1928, ed è passato alla storia come gli accordi di Achnacarry, dal nome di un castello in Scozia in cui avvenne una riunione tra i rappresentanti delle sette sorelle. A quel summit parteciparono, oltre a tutti i rappresentanti di tutte e sette le società, grandi personalità dell’industria del petrolio di quei tempi come Harry Deterding, direttore della Royal Dutch Shell, Walter C. Teagle, rappresentante della Standard Oil of New Jersey (Esso) e Sir John Cadman, direttore della Anglo Persian Oil Company (futura BP). In questa riunione, oltre a ribadire quali fossero le zone di estrazione e che tra le compagnie petrolifere non doveva esserci concorrenza ma collaborazione per evitare di rendere instabile il mercato, si decise che era il momento di trovare un accordo sui prezzi di vendita e sui costi di trasporto. L’accordo che venne raggiunto e che venne condiviso da tutti i partecipanti della riunione consiste in questo: da quel momento in poi ci sarebbe stato un unico prezzo del petrolio, che aveva valenza universale, che veniva calcolato basandosi sul prezzo del petrolio americano che proveniva dal Golfo del Messico con l’aggiunta dei costi di trasporto dal Golfo del Messico verso i Paesi di destinazione. Questo criterio di calcolo non teneva conto in nessuna maniera della reale provenienza del petrolio, e, quindi, qualunque fosse stata la sua provenienza, il greggio sarebbe costato come se provenisse dal Golfo del Messico. Per capire meglio si tenga conto di questo esempio: se una compagnia petrolifera avesse spedito all’Italia del petrolio proveniente da un Paese vicino ad essa, come la Libia, questo greggio sarebbe costato all’Italia come se provenisse dal lontano Golfo del Messico.[6] Dato che il petrolio mediorientale aveva costi di estrazione più bassi rispetto a quelli del petrolio americano, con questo metodo per stabilire i prezzi è facile immaginare come le compagnie petrolifere «lucrarono formidabili rendite di posizione, proprio perché continuarono a vendere al prezzo stabilito e gravato di tutti quegli oneri di trasporto e di maggior costo di estrazione anche il petrolio mediorientale».[7]
Con gli accordi del 1928 le sette sorelle avevano radicato la loro presenza in Medio Oriente, fatta eccezione per un solo Paese, ovvero l’Iran, la cui produzione petrolifera era controllata fin dagli inizi del XX secolo dal Regno Unito attraverso la società Anglo Persian Oil Company (APOC), che divenne Anglo Iranian Oil Company (AIOC) quando la Persia nel 1935 venne rinominata Iran, e negli anni Cinquanta, infine, la compagnia prese il nome di British Petroleum (BP).
L’Italia e la Crisi di Abadan (o Crisi Anglo-Iraniana)
La produzione petrolifera dell’Iran era controllata fin dagli inizi del XX secolo dal Regno Unito attraverso la società Anglo Persian Oil Company (APOC), che divenne Anglo Iranian Oil Company (AIOC) quando la Persia nel 1935 venne rinominata Iran, e negli anni Cinquanta, infine, la compagnia prese il nome di British Petroleum (BP). È fondamentale capire come sia nata questa società e come il governo inglese di allora ne acquisì il controllo, ottenendo di conseguenza la produzione petrolifera in Iran.
L’APOC venne fondata nel 1908 dopo che William Knox d’Arcy, un importante uomo d’affari britannico, ottenne una concessione della durata di sessant’anni per cercare, produrre e sfruttare il petrolio sull’intera estensione dell’Impero persiano, fatta eccezione per cinque provincie a nord del Paese. L’iniziativa della APOC venne appoggiata dal governo britannico, anche se questo non si sentiva sicuro di lasciare totalmente nelle mani di una società privata la grande concessione di sfruttamento, soprattutto perché la Persia a quel tempo era esposta alle mire espansionistiche delle altre potenze, in particolare della Russia. Infatti il confronto tra Russia e Regno Unito per il controllo dell’Asia centrale era in pieno svolgimento quando nacque l’impresa di William Knox d’Arcy, facendo dei russi i più pericolosi avversari degli inglesi per quanto riguardava il controllo del petrolio persiano. Leonardo Maugeri spiega:
Pur avendo sostenuto l’iniziativa della Anglo-Persian Oil Company, il governo britannico non si sente sollevato al pensiero che il petrolio persiano […] sia nelle mani di una società privata, anche se nazionale, soprattutto perché la Persia è assai vulnerabile alle mire di penetrazione di potenze straniere concorrenti. In realtà, il controllo dell’intera Asia centrale è la posta in palio di un confronto quasi secolare tra Gran Bretagna e Russia, ciascuna delle quali considera la regione un tassello fondamentale della propria sicurezza. Per il Regno Unito, l’Asia centrale è la conchiglia che fa da scudo alla perla dell’impero, l’India. Per la Russia, invece, essa è il ventre molle del suo immenso territorio, il luogo le cui praterie aperte sono storicamente servite come vie dirette per la conquista da parte degli invasori mongoli, ma anche la porta attraverso cui l’islam può penetrare nel cuore dell’impero degli Zar. Passato alla storia come the great game, espressione resa popolare da Rudyard Kipling con il romanzo Kim (1901), il confronto anglo-russo per il dominio sull’Asia centrale è in pieno corso quando l’impresa di D’Arcy prende forma, facendo dei russi i più temibili concorrenti alla successione del controllo britannico sul petrolio persiano.[8]
Dunque, per tutelare gli interessi petroliferi della Gran Bretagna in Persia, il governo inglese avrebbe dovuto acquisire una quota maggioritaria della APOC, che le avrebbe permesso così di controllare, non solo la società, ma anche l’importante concessione. A fare pressioni sul governo inglese affinché si facesse questo fu Winston Churchill, che all’epoca era il Primo Lord dell’ammiragliato della marina britannica. Churchill aveva compreso quanto fosse importante il petrolio per poter muovere, non solo le navi della marina militare, ma l’intera macchina bellica del Paese in vista di un prossimo conflitto. Churchill, sin dal 1911, insisteva nel convertire il sistema di propulsione della marina militare dal carbone al petrolio, dato che quest’ultima era una fonte di energia assai più efficiente della prima. Quindi, a tale scopo, si rendeva necessario per il Regno Unito avere una fonte sicura di approvvigionamento di petrolio, fonte che non aveva né sul proprio territorio nazionale né sulle sue colonie; di conseguenza era necessario, secondo Churchill, acquisire il controllo della APOC per acquisire in tal modo il controllo del petrolio persiano, e dare alla Gran Bretagna una fonte sicura di rifornimento. Per convincere il governo inglese a mettere in atto questa operazione, nel 1913 pronunciò un discorso di fronte al parlamento, in cui cercò di far comprendere quanto fosse importante questa risorsa:
Se non riusciamo ad avere petrolio, non riusciremo neanche ad avere granturco, non riusciremo ad avere cotone e non riusciremo a disporre delle infinite risorse necessarie per il mantenimento delle energie economiche della Gran Bretagna.[9]
Il governo inglese decise di seguire il consiglio di Churchill e, appena si presentò l’occasione, acquisì il controllo della APOC: la società dal 1912 iniziò a versare in gravi condizioni economiche e nel 1914 era ormai sull’orlo della bancarotta. Per salvarla da tale situazione intervenne il governo inglese che acquistò il 51% della compagnia, permettendo in tal modo alla Gran Bretagna di avere il controllo sulla APOC e, di conseguenza, sulla produzione petrolifera iraniana.[10] Il Regno Unito ebbe così l’esclusivo controllo sul petrolio iraniano fino alla Crisi di Abadan, avvenuta negli anni Cinquanta.
La Crisi di Abadan fu un conflitto tra il Regno Unito e l’Iran che si svolse tra il 1951 e il 1954, a seguito della nazionalizzazione da parte del governo iraniano della AIOC (in questo momento storico la compagnia era così denominata) e delle raffinerie della città di Abadan. Con la nazionalizzazione dei beni della AIOC nacque la National Iranian Oil Company (NIOC), un ente di proprietà dello Stato che appunto espropriò i beni della AIOC. La nazionalizzazione venne imposta dal Primo Ministro iraniano, il nazionalista Mohammed Mossadeq, che aveva come obiettivo il recupero della sovranità sulla più importante risorsa del Paese, ovvero il petrolio, risorsa che era diventata il «simbolo dell’indipendenza nazionale».[11] Mohammed Mossadeq, per raggiungere tale obiettivo, era deciso a «espellere l’Anglo Iranian Oil Company per lasciare il pieno controllo del greggio alla National Iranian Oil Company».[12] Attraverso il controllo della produzione petrolifera, infatti, l’Iran avrebbe voluto liberarsi dall’influenza della Gran Bretagna che, attraverso la AIOC, sfruttava le risorse del Paese comportandosi come dei colonialisti dell’Ottocento. Infatti, i lavoratori iraniani della AIOC, lamentavano le condizioni disumane in cui essi erano tenuti a differenza dei loro colleghi britannici, che erano trattati meglio sotto ogni punto di vista. A questo proposito, è interessante il testo di un documento riportato da Leonardo Maugeri nel suo studio, che descrive le pessime condizioni in cui versavano i dipendenti iraniani:
Non esistevano giorni di vacanza, permessi per malattia, risarcimenti per infortunio. I lavoratori vivevano in una baraccopoli chiamata Kaghzabad, o paper city, priva di acqua corrente e di elettricità, per non parlare di lussi come frigoriferi o ventilatori. D’inverno la terra era allagata e diventava un lago piatto e malsano. D’estate andava peggio. Per il management di AIOC i lavoratori erano fuchi senza volto. Nella parte britannica di Abadan c’erano prati, cespugli di rose, campi da tennis, piscine, e circoli; a Kaghzabad non c’era niente – non una sala da tè, non dei bagni, non un solo albero. I vicoli sterrati erano depositi per topi.[13]
Le ragioni della nazionalizzazione del petrolio non risiedevano solamente nella rivendicazione di condizioni migliori per i lavoratori e nella revisione della spartizione degli utili (che era davvero iniqua per l’Iran), ma anche nella volontà di riappropriarsi di una risorsa che avrebbe permesso all’Iran di sottrarsi al dominio di fatto della Gran Bretagna. Maugeri spiega che
con il crescere della tensione, cambia anche il tenore delle rivendicazioni iraniane: ora non si tratta più di rivedere i termini della concessione ben si di liberarsi dall’invadenza di un paese straniero che per mezzo secolo ha controllato e piegato ai propri interessi ogni aspetto della vita del paese. Con questo obiettivo, nel 1949 un gruppo di membri del majlis (il parlamento iraniano) guidato da Mossadegh propose di nazionalizzare le attività di BP in Iran.[14]
Il Regno Unito rispose alla nazionalizzazione con una decisa attività diplomatica che portò in brevissimo tempo al boicottaggio mondiale del petrolio iraniano: infatti il governo inglese esercitò ogni pressione affinché nessuno acquistasse il greggio proveniente dall’Iran, e, inoltre, Londra denunciò l’Iran alla corte internazionale dell’Aja, ritenendo l’espropriazione dei beni della AIOC un atto illegittimo; bloccò i conti bancari iraniani presso le banche inglesi e addirittura riuscì a convincere anche gli Stati Uniti d’America a non acquistare il petrolio iraniano. In poco tempo la situazione economica dell’Iran giunse al collasso, e il primo ministro Mohammed Mossadeq si trovò in serie difficoltà.[15] A tutto questo Mossadeq cercò di reagire, rispondendo con l’espulsione dei tecnici inglesi da Abadan e chiudendo l’ambasciata inglese di Teheran, rompendo in tal modo ogni rapporto diplomatico con il Regno Unito. Data la difficile situazione che ormai si era creata con l’Iran, il Regno Unito si convinse che l’unico modo per porre fine al contrasto era un intervento di tipo militare che destituisse Mossadeq. Il governo inglese chiese fin da subito l’aiuto degli Stati Uniti per organizzare un golpe che portasse alla destituzione di Mossadeq, dato che esso non avrebbe potuto organizzarlo autonomamente a causa del fatto che, essendo ormai rotti i rapporti diplomatici tra Regno Unito e Iran, i servizi segreti britannici non avrebbero potuto rendere possibile una simile operazione. Inizialmente il governo degli Stati Uniti, presieduto da Harry Truman, scoraggiò un intervento di questo tipo, perché temeva che una operazione militare in Iran potesse offrire all’Unione Sovietica il pretesto per intervenire in difesa del Paese, in virtù di un accordo di amicizia russo-persiano stipulato tra i due Paesi nel 1921. L’amministrazione Truman, dunque, temeva che l’Unione Sovietica potesse approfittare della situazione in Iran, e, con il pretesto di un intervento in sua difesa, avrebbe potuto cogliere l’occasione per estendere la sua influenza politica nell’Iran e ottenere l’accesso al petrolio persiano. In un clima di Guerra Fredda, dare l’opportunità all’URSS di prendere il controllo del greggio iraniano, era un rischio che non si poteva correre.[16] I britannici, però, erano sempre più decisi a risolvere la questione con l’Iran destituendo Mossadeq con un colpo di stato, e trovarono l’appoggio degli Stati Uniti quando a Washington ci fu il cambio di amministrazione con Eisenhower, un’amministrazione che era impegnata a limitare tutte le possibili espansioni dell’Unione Sovietica con ogni mezzo. Stefano Beltrame, a questo proposito, scrive:
La preoccupazione dell’Amministrazione Eisenhower è quella di […] rintuzzare l’espansionismo sovietico ovunque nel mondo. […] Con l’elezione di Eisenhower, Washington finirà per accettare la richiesta britannica di organizzare congiuntamente un intervento clandestino per la rimozione di Mossadeq. […] Il 4 marzo a Washington, in ambito National Security Council, si discute di Iran alla presenza del Presidente Eisenhower e del Segretario di Stato Dulles. Secondo il resoconto della riunione: Le probabili conseguenze degli eventi degli ultimi giorni in Iran – ha concluso Mr. Dulles – potrebbero essere l’instaurazione di una dittatura sotto Mossadeq. Finché questi resta in vita non c’è grande pericolo, ma se egli dovesse essere assassinato o rimosso dal potere, un vuoto politico si potrebbe creare e i comunisti potrebbero facilmente prendere il sopravvento. Le conseguenze sarebbero molto serie. Il mondo libero sarebbe privato dell’accesso alle enormi risorse petrolifere iraniane e tali risorse passerebbero in mano dei russi che risolverebbero in tal modo ogni loro esigenza petrolifera. La cosa peggiore – ha evidenziato Mr. Dulles – è che se l’Iran soccombe ai comunisti non c’è dubbio che, subito dopo, altre aree del Medio Oriente, con il circa il 60% delle riserve petrolifere mondiali, cadrebbero sotto il controllo comunista.[17]
Gli Stati Uniti, dunque, aiutarono il governo inglese a organizzare il golpe con quelli che erano i due uomini di punta dell’amministrazione Eisenhower, ovvero John Dulles, segretario di Stato, e Allen Dulles, direttore della Central Intelligence Agency (CIA). John Dulles e Allen Dulles ebbero un ruolo importante nel piano che portò al rovesciamento di Mossadeq. Nell’agosto 1953 ebbe luogo in Iran quella che è passata alla storia come operazione Ajax, che come conseguenza portò alla destituzione e all’arresto di Mossadeq, e il rientro dello scià Mohammed Reza Pahlavi (governo filo-britannico).[18] Le conseguenze del colpo di stato in Iran, per quanto riguarda la questione del petrolio, furono che la Gran Bretagna cessò di controllare in esclusiva la produzione iraniana e gli Stati Uniti decisero che a gestire le riserve di greggio in Iran fosse un consorzio formato insieme alle altre grandi compagnie petrolifere, ovvero le sette sorelle; nacque così il consorzio per l’Iran. A spingere gli Stati Uniti a prendere una simile decisone, fu la mancanza di fiducia nei confronti degli inglesi che tendevano a sfruttare le risorse del Paese in maniera eccessiva, e per evitare in futuro un’altra crisi politica in Iran legata alla questione del petrolio, si decise che il governo inglese non avrebbe gestito in maniera esclusiva e autonoma il petrolio iraniano attraverso la AIOC (che ora diventa British Petroleum, ovvero BP) ma lo avrebbe fatto insieme alle altre compagnie, partecipando appunto al consorzio per l’Iran. Per comprendere meglio è utile riportare quanto spiega Maugeri sulle conseguenze della Crisi di Abadan:
tuttavia, la conseguenza più immediata della crisi iraniana riguarda la Gran Bretagna […]. Gli Stati Uniti hanno perso la fiducia nel loro alleato, disapprovando il suo approccio di stampo colonialista agli affari internazionali e temono che il controllo britannico del petrolio iraniano possa costituire una permanente fonte di instabilità per il paese. Perciò il dipartimento di stato USA promuove, nel 1954, la costituzione di un consorzio internazionale per la produzione, la raffinazione e la commercializzazione del petrolio iraniano.[19]
Il consorzio per l’Iran aveva dunque l’obbiettivo di tutelare la stabilità politica del Paese attraverso la tutela delle sue riserve petrolifere, che gli Stati Uniti ritenevano di fondamentale importanza non solo per essi ma per l’intero mondo occidentale. È quanto si evince dal testo di un documento della sicurezza nazionale degli USA:
gli interessi della sicurezza nazionale richiedono che le società petrolifere degli Stati Uniti partecipino a un consorzio internazionale per concludere un accordo con il governo dell’Iran, entro l’area dell’ex AIOC, per l’acquisto, la produzione e la raffinazione di petrolio, al fine di permettere la riattivazione della suddetta industria, e di fornire quindi al governo amico dell’Iran entrate consistenti che proteggano gli interessi del mondo occidentale nelle risorse petrolifere del Medio Oriente.[20]
La diplomazia italiana seguì con vivo interesse la Crisi di Abadan del 1951-1954. Nel momento in cui giunse la notizia che si andava costituendo il consorzio per l’Iran, che avrebbe gestito l’importante produzione petrolifera iraniana, la diplomazia italiana si attivò affinché anche l’Italia, attraverso un suo ente o gruppo industriale, entrasse a far parte con una quota di partecipazione nel consorzio per l’Iran. La diplomazia italiana sperava che il nostro Paese potesse essere ammesso, per via del fatto che, durante la crisi anglo-iraniana, l’Italia aveva rispettato l’embargo che la Gran Bretagna aveva posto sul petrolio iraniano, rifiutando di acquistare, attraverso l’AGIP, il greggio venduto dalla NIOC, considerato espropriato in maniera illegittima alla AIOC. Sia la diplomazia italiana e sia Mattei, inizialmente credettero che la fedeltà dimostrata alla Gran Bretagna durante la crisi anglo-iraniana potesse dare all’Italia una certa credibilità, e che la lealtà del nostro Paese verso il governo inglese sarebbe stata ricompensata con l’invito a partecipare alla spartizione del petrolio iraniano. Ma l’Italia non avrebbe mai potuto far parte del consorzio essenzialmente per due motivi: perché era debole da un punto di vista politico, e, non avendo peso sulle vicende internazionali, il Paese non sarebbe quindi riuscito a esercitare eventuali pressioni, attraverso un’azione diplomatica, che avrebbero potuto sortire quest’effetto; sia perché non c’erano aziende italiane tanto importanti quanto le società petrolifere anglo-americane che avrebbero potuto far parte di un’associazione destinata a controllare l’importante produzione petrolifera iraniana. Infatti l’ENI era appena nato (10 febbraio 1953), ed era una realtà industriale ancora troppo piccola, e una sua eventuale richiesta di entrare nel consorzio sarebbe stata certamente rifiutata. Questo Mattei lo sapeva bene, come dimostra una sua lettera scritta al diplomatico Vittorio Zoppi, Segretario Generale di Palazzo Chigi; quest’ultimo aveva chiesto sia al presidente della FIAT Vittorio Valletta, sia al presidente dell’ENI, di cercare di inserire l’Italia nel consorzio attraverso uno dei due più importanti gruppi industriali italiani.[21] Mattei, il primo febbraio 1954, rispose in tal modo alle richieste di Zoppi:
Il problema del nostro eventuale inserimento nella progettata compagnia per il commercio dei petroli persiani, secondo me, ha carattere essenzialmente politico. Anche se taluni governi sono ora rientrati formalmente dietro le quinte, è certo che essi, con una lunga e intensa azione diplomatica, hanno spianato la via affinché i grandi trust petroliferi – quasi ambasciatori economici dei rispettivi paesi – possano spiegare la loro potenza per perfezionare accordi che sono in massima più che maturi. Ma finora in questo giuoco noi siamo fuori. Cosicché io penso che qualsiasi domanda di inserimento di complessi italiani arriverebbe allo scoperto e sarebbe destinata a una pietosa fine. Credo pertanto che nessun ente responsabile – noi o la FIAT – potrebbe oggi esporsi alla leggera, al prevedibile insuccesso. La cosa, naturalmente, cambierebbe se l’opera della nostra diplomazia riuscisse a provocare una qualsiasi forma di invito o di incoraggiamento. Può essere certo che quel giorno noi sapremmo trovare gli agganci tecnici per accordare la tutela degli interessi italiani con il rispetto dei nostri accordi e dei riguardi personali con i gruppi petroliferi esteri.[22]
In assenza di documenti che possano dimostrare che Mattei successivamente abbia inoltrato una richiesta ufficiale per inserire l’ENI nel consorzio iraniano, è possibile ritenere che una richiesta in tal senso da parte sua non ci fu mai. Dunque, nel 1954, anno di costituzione del consorzio, l’azienda di Stato italiana rimase esclusa dalla spartizione del petrolio dell’Iran.
Ad ogni modo, le grandi compagnie non avrebbero potuto ammettere l’ENI al consorzio. Se lo avessero fatto avrebbero creato un precedente, e altri piccoli operatori del settore avrebbero preteso anch’essi di avere una quota di partecipazione.
Tuttavia, due anni dopo la costituzione del consorzio per l’Iran, e cioè nel 1956, si presentò all’ENI di Enrico Mattei l’opportunità di avere un accesso diretto al petrolio iraniano. Una opportunità che il manager italiano seppe cogliere.
Verso il contratto ENI-NIOC
La National Iranian Oil Company (NIOC), che sopravvisse alla Crisi di Abadan e al colpo di stato che riportò lo Scià Reza Pahlavi al potere in Iran, gestiva le aree non sfruttate o comunque non controllate dalle società petrolifere anglo-americane che facevano parte del consorzio per l’Iran. Lo Stato iraniano, nell’intento di ottenere rendite migliori dall’industria petrolifera, cercava partner diversi dalle società del cartello a cui poter proporre formule contrattuali ancora più vantaggiose del fifty-fifty concesso dalle major anglo-americane. L’accordo elaborato dai vertici della NIOC prevedeva la creazione di una società mista detenuta al 50% da un partner e dall’ente di Stato iraniano; royalties del 50% sulla produzione allo Stato e l’altro 50% rimanente restava di proprietà della società mista; il partner che avrebbe contratto l’accordo aveva il diritto di esportare la sua quota del 25% in petrolio. Il presidente della NIOC, Bayat, propose questo accordo ad alcune società private italiane attive nel settore petrolifero, tra cui la SUPOR di Andrea Porlezza e Nicolai Soubotian, e la STOI di Emanuele Floridia. La SUPOR non poté accettare l’accordo, dato che nel 1954, dopo una serie di vicende, andò in contro ad un fallimento. La NIOC allora avvicinò un’altra società, la STOI, a cui venne proposto di fondare una società mista italo-iraniana per la raffinazione e la commercializzazione del petrolio. La compagnia avrebbe dovuto essere chiamata “IRANCO”. Emanuele Floridia strinse inoltre buoni rapporti con i vertici della NIOC, tanto che questi consegnarono all’imprenditore italiano l’incarico di sottoporre all’attenzione di altre aziende italiane – che avessero l’interesse a partecipare con parità di condizioni alla ricerca e allo sfruttamento petrolifero in Iran ‑ lo stesso accordo che era stato proposto a lui. Emanuele Floridia volle girare la proposta d’accordo all’AGIP, che a sua volta venne inoltrata, tramite l’ingegner Carlo Zanmatti, al presidente dell’ENI.[23] Zanmatti, l’otto luglio 1956, scrisse una lettera a Mattei, nella quale l’ingegnere spiegava con precisione i termini dell’accordo proposto dalla NIOC. Di seguito il testo della lettera:
Il Dott. Floridia, testé ritornato dall’Iran dove avrebbe concluso un accordo STOI-NIOC per la costituzione di una società mista italo-iraniana (IRANCO) per la raffinazione ed il commercio del petrolio iraniano in Italia, ha avuto personalmente e confidenzialmente l’incarico dal Presidente della NIOC (praticamente l’ENI iraniana) di interpellare Enti o Gruppi italiani eventualmente interessati a partecipare a parità di condizioni con Enti iraniani ad una impresa di ricerca e sfruttamento petrolifero nell’Iran.
Detta impresa italo-iraniana dovrebbe essere basata sui seguenti criteri che in linea di massima sarebbero accettati dal Governo Iraniano:
1) Società con partecipazione al 50% di un gruppo o Ente Iraniano ed al 50% di un Ente o Gruppo italiano.
2) Alla società mista sarebbero accordati permessi di ricerca, da scegliere di comune accordo in tutto il territorio iraniano che il governo ha a sua disposizione (non impegnato dal “Consorzio”) in numero non eccedente a 12, dell’area di 20.000 Ha. ciascuno, per la durata di 5 anni rinnovabili in concessioni di 25 anni quando i permessi si saranno dimostrati industrialmente produttivi.
3) Royalties del 50% sulla produzione allo Stato, una volta coperte tutte le spese delle ricerche effettuate dalla Società mista. Il restante 50% resta di proprietà della Società ed il Gruppo italiano avrà il diritto di esportare la sua quota del 25% in petrolio.
4) La società mista non sarà gravata da particolari oneri fiscali oltre alle normali tasse sulle Società operanti nel paese ed ai normali canoni fissi annuali sui permessi di ricerca e sulle concessioni (canone per ettaro).
5) In sede di trattative per la definizione dell’accordo, il Governo Iraniano, data la speciale fisionomia della società mista, non sarà alieno dal concedere qualche facilitazione fiscale, doganale, ecc. giustificate dalle promozioni di attività per lo sviluppo economico del Paese.
Il Dott. Floridia ha segnalato la questione esclusivamente all’ENI e si impegna a non farne parola con alcun gruppo italiano per una durata di 15 giorni. Qualora l’ENI decidesse di interessarsi prontamente della cosa, il Dott. Floridia, come da preventive intese con il Presidente della NIOC, dovrebbe comunicare telegraficamente ad detto Presidente l’adesione di massima del Gruppo italiano ed in tal caso l’ENI (o il gruppo italiano indicato) riceverebbe un invito ufficiale ad inviare in Iran una missione per trattare e definire concretamente un regolare accordo.
Inoltre il Presidente della NIOC avrebbe incaricato il Dott. Floridia di interessare Gruppi italiani allo studio della possibilità di utilizzazione del gas naturale nell’Iran.
Il Governo Iraniano è molto interessato a questa questione ed esaminerebbe molto volentieri studi e progetti che in proposito gli fossero suggeriti, o proposti.[24]
Questo interessante documento, pubblicato nell’autorevole studio di Ilaria Tremolada, permette di demolire una delle tante convinzioni che sono legate alla vicenda di Enrico Mattei, ovvero quella che il manager italiano abbia ideato e proposto per primo ai Paesi produttori una formula contrattuale innovativa rispetto al fifty-fifty, che garantiva una rendita più alta del 25% e un coinvolgimento attivo per il Paese nell’industria petrolifera. Dunque quella che è passata alla storia come “formula Mattei”,[25] che alla luce di quanto detto andrebbe ribattezzata «formula NIOC»,[26] in realtà è un accordo la cui paternità appartiene all’ente di Stato iraniano e non all’ENI di Mattei.
Dunque, contrariamente a quanto riportato dalla letteratura più tradizionale sull’argomento, fu l’Iran a ideare una innovativa formula contrattuale, secondo la quale il governo chiedeva alle compagnie petrolifere occidentali di avere una ripartizione degli utili a suo favore (il 75%) e, in più, di essere coinvolti nella produzione e nella gestione del petrolio, amministrando a parità di condizioni una società mista. Dato che le multinazionali anglo-americane non volevano concedere i miglioramenti che il Paese produttore chiedeva, il governo iraniano cercò un interlocutore ideale, che potesse appunto essere disposto a concludere un accordo accettando i termini della formula 75/25. L’Iran trovò il suo interlocutore ideale nell’Italia, e in particolare nell’ENI di Mattei, che da parte sua aveva bisogno di una opportunità per entrare, tramite vie dirette, in un area del mondo ricca di petrolio, ovvero il Medio Oriente. Scrive Ilaria Tremolada:
Le major non concessero i miglioramenti che i paesi produttori chiedevano, spingendoli a cercare interlocutori disposti a dar loro ciò che le potenti compagnie anglo-americane non volevano concedere. Di questo desiderio l’Iran trasse spunto per ideare un nuovo sistema di ripartizione degli utili basato sulla collaborazione tra lo Stato e la società petrolifera. Ne nacque cioè il sistema che erroneamente è stato chiamato “Formula Mattei”. Il presidente dell’ENI ebbe dunque solamente il merito di avere prestato fiducia all’iniziativa iraniana attirando su di sé le numerose critiche che il contratto suscitò. Incurante delle pressioni che da più parti gli furono rivolte e convinto dell’enorme opportunità che l’accordo dava al suo paese, Mattei, che non ha il merito contrariamente a quanto fino ad oggi affermato, di avere ideato il contratto, ebbe però la sensibilità per capire che il nuovo modello incarnava l’idea di libertà ed emancipazione che muoveva il Medio Oriente.[27]
Nel 1957 l’ENI riuscì a fare il suo ingresso in Iran, grazie ad un accordo stipulato con l’ente di Stato iraniano, ossia la NIOC. Il 14 marzo venne firmato un accordo preliminare, che poi venne ufficializzato il 3 agosto. Il contratto prevedeva la creazione di una joint company (società mista)denominata Société Irano-Italienne des Pétroles (SIRIP), detenuta pariteticamente al 50% dall’ENI e dalla NIOC. La SIRIP avrebbe ceduto il 50% dei profitti in royalties allo Stato iraniano, e il restante 50% veniva diviso in maniera paritetica tra ENI e NIOC. Poiché la NIOC è un’azienda che appartiene allo Stato iraniano, la percentuale di utili percepita dal governo saliva al 75%.[28] L’ENI ottenne permessi di ricerca in tre zone difficili: la prima, una zona offshore, situata al largo di Bandar-e-Bushehr, era promettente ma per l’ENI si trattava di una vera e propria sfida dato che fino a quel momento l’azienda italiana non aveva mai effettuato ricerche sul mare; la seconda e terza zona si trovavano sulla terraferma, una nella regione montuosa degli Zagros, a circa 3.000 metri di altitudine, l’altra nella regione del Mekran, posta nella estrema periferia del Paese, e, inoltre, a grande distanza dagli altri punti operativi dell’AGIP. Le due zone sulla terraferma non si rivelarono molto produttive e si ottennero scarsi risultati, mentre nella zona in mare si ottennero risultati positivi, che permisero, a partire dal settembre 1962, l’entrata in produzione dei pozzi.[29]
Mattei e l’Africa
Negli anni Cinquanta nel Mediterraneo e in Medio Oriente vi fu l’esplosione del nazionalismo arabo, un fenomeno che ebbe il suo centro nell’Egitto di Nasser.
Nel 1952 Gamal Abdel Nasser con un colpo di stato prese il potere in Egitto e tra le sue importanti iniziative c’era la costruzione della diga di Assuan, ma per realizzare una simile opera aveva bisogno di reperire dei fondi; tale esigenza spinse Nasser a nazionalizzare il canale di Suez, dato che con la nazionalizzazione l’Egitto avrebbe potuto rimpinguare le casse dello Stato, ricavando cospicue entrate derivate dal pedaggio che le navi avrebbero dovuto pagare per poter passare.[30] Dal momento in cui Nasser nazionalizzò il canale, Francia e Gran Bretagna cercarono di reimpossessarsene, dato che, soprattutto per la Gran Bretagna, il canale era di vitale importanza, in quanto dal canale passavano le petroliere che dal Medio Oriente portavano il petrolio in Europa occidentale. Daniel Yergin, storico del petrolio, spiega bene questa importanza strategica del canale di Suez:
Nel 1948 il canale perdette improvvisamente la sua importanza tradizionale quando l’India acquistò l’indipendenza e non esistevano perciò più ragioni di presidiarlo perché essenziale alla difesa dell’India o dell’impero in liquidazione. Ma proprio nello stesso momento il canale rivestì una nuova funzione: non più via maestra dell’impero, ma del petrolio. La maggior parte della produzione di greggio del Golfo Persico diretta in Europa passava per il canale, quasi dimezzando il viaggio fino a Southampton. Nel 1955, il petrolio rappresentava i due terzi del traffico marittimo da e per il Mar Rosso e due terzi del petrolio acquistato dall’Europa passavano dal canale. Affiancato a nord da Tapline e dagli oleodotti dell’IPC [Iraq Petroleum Company], il canale era un collegamento essenziale nella struttura postbellica dell’industria petrolifera internazionale e una via d’acqua insostituibile per le potenze occidentali che dipendevano sempre più dal greggio del Medio Oriente.[31]
Francia e Gran Bretagna decisero di creare un casus belli per poter occupare militarmente il canale, e qui entrò in gioco Israele, con cui l’Egitto di Nasser aveva iniziato una politica di scontri. L’Egitto, infatti, finanziava i guerriglieri arabi e palestinesi che avevano l’obiettivo di riportare sotto il controllo palestinese il territorio che Israele aveva occupato alla fine della prima guerra arabo-israeliana. Su questa situazione contavano la Francia e la Gran Bretagna, che con Israele fecero un accordo segreto: se Israele fosse intervenuto contro l’Egitto, non solo Gran Bretagna e Francia l’avrebbero appoggiata dal punto di vista diplomatico, ma con la scusa di mettere in sicurezza il canale di Suez, l’avrebbero appoggiata anche dal punto di vista militare. Il 29 ottobre 1956 Israele invase l’Egitto occupando la striscia di Gaza, e poi attaccarono il Sinai, dove le forze egiziane si erano concentrate per opporsi. Successivamente, dopo aver annunciato la propria volontà di impedire dei danni al canale di Suez, Gran Bretagna e Francia sbarcarono le loro forze sul canale. In due giorni francesi e inglesi riuscirono ad assicurare la loro posizione sul canale. Sul piano militare le due potenze europee stavano vincendo, ma non fecero i conti con il fatto che in quegli anni la politica era cambiata. Nei mesi precedenti gli Stati Uniti d’America condannarono l’Unione Sovietica per aver represso con violenza la Primavera di Praga; ora gli USA si trovarono nell’imbarazzante situazione di tacere su un intervento militare messo in atto dai suoi più importanti alleati europei. Data la situazione l’amministrazione Eisenhower decise di intimare alla Francia e alla Gran Bretagna di ritirarsi dall’Egitto, facendo pressioni soprattutto sul governo di Londra, minacciando quest’ultimo di vendere le riserve statunitensi della sterlina, una manovra finanziaria che avrebbe provocato il crollo della moneta britannica. L’ordine di ritirarsi dall’Egitto giunse anche dall’Unione Sovietica, dato che questa si era avvicinata al Paese guidato da Nasser, quando il generale egiziano nel 1955 aveva firmato con l’URSS un trattato per la fornitura di mezzi militari sovietici che l’Egitto avrebbe contraccambiato con del cotone egiziano. Ma la vera ragione per cui l’URSS si schierò al fianco dell’Egitto probabilmente era la volontà di impedire l’interferenza occidentale in un area in cui avrebbe voluto consolidare la sua influenza.[32] Francia, Gran Bretagna e Israele si ritirarono dall’Egitto e per Nasser fu una vittoria politica, dato che cessava la presenza inglese e francese in Egitto, e il Paese poté considerarsi libero dall’influenza delle due ex potenze coloniali. Con la Crisi di Suez «in Medio Oriente si chiuse l’epoca delle potenze coloniali e, a seguito dell’intervento di Unione Sovietica e Stati Uniti, la regione entrò di prepotenza nella guerra fredda».[33]
Il progetto di Nasser per il mondo arabo era quello di riscattarsi dalla dominazione delle potenze occidentali. Tale riscatto, secondo il generale egiziano, poteva avvenire attraverso la gestione delle proprie risorse naturali, ovvero il petrolio. Spiega Leonardo Maugeri:
Gamal Abdel Nasser, per primo mostra ai paesi arabi come il petrolio possa costituire un’arma per riscattarsi dalla dominazione occidentale. […] Nasser mette a fuoco il principio del controllo sul petrolio a fini strumentali e politici. Nel suo scritto Filosofia di una rivoluzione, il leader egiziano individua nel petrolio uno dei tre pilastri fondamentali del potere arabo, e l’arma più efficace per imporre i diritti della nazione araba su quelli delle potenze occidentali […]. Questa presa di coscienza giunge proprio negli anni in cui la produzione petrolifera dei paesi arabi cresce a ritmi impressionanti, circostanza che accresce il loro desiderio di ripensare gli equilibri di potere determinatisi in precedenza. Nasser inizia così a proclamare il diritto dei governi arabi alla sovranità sulle risorse naturali, chiedendo il ritiro delle società internazionali e la costituzione di consorzi locali per la produzione, il trasporto e la raffinazione del greggio.[34]
Le idee di Nasser si propagarono in tutto il mondo arabo, dando vita ad una serie di insurrezioni che avevano l’obiettivo di liberarsi dalla dominazione occidentale: nel 1956 in Arabia Saudita ci fu una rivolta contro la società petrolifera ARAMCO (Arabian American Oil Company), che fu segretamente appoggiata da Nasser; nel 1957 si verificarono movimenti nazionalisti filo-nasseriani in Giordania e Libano; nel febbraio 1958 Egitto e Siria diedero vita alla Repubblica Araba Unita (RAU), che nelle intenzioni di Nasser avrebbe dovuto essere l’origine di una nazione araba unita.[35] Sempre nel 1958 si verificò un colpo di stato in Iraq, che pose fine alla monarchia hascemita, una monarchia sostenuta e finanziata dalla Gran Bretagna. Il colpo di stato portò al potere Abdel Karim Kassem (1958-1963) che, tra le altre cose, cercò di avviare nel Paese un processo di modernizzazione e industrializzazione. Per raggiungere tale obiettivo aveva bisogno di forti introiti che arricchissero le casse dello Stato iracheno, e tali entrate potevano venire solo dal settore petrolifero. Per tali ragioni Kassem cercò di ottenere maggiori diritti dalla IPC (Iraq Petroleum Company), controllata fondamentalmente dalla Gran Bretagna. Nel 1961 decise di confiscare il 99,5% delle concessioni petrolifere che non erano state sfruttate dalla IPC, rientrando in possesso dei campi petroliferi di Rumayla.[36]
Il nazionalismo di Nasser si diffuse anche nei Paesi arabi del nord Africa che erano dominati dalla Francia, e le conseguenze furono delle insurrezioni che portarono all’indipendenza il Marocco, l’Algeria e la Tunisia. Per quanto riguarda il Marocco, questo Paese ottenne l’indipendenza grazie al sultano Mohammed V (Maometto V), salito al trono nel 1927. Mohammed V era esponente di un Islam riformato che cercava l’incontro e la sintesi con la modernità occidentale. In un primo momento il governo non si distinse per la propria azione anticolonialista, anche se erano presenti una componente di intellettuali mussulmani nei partiti marocchini che iniziarono a invocare il nazionalismo: nacquero dei partiti nazionalisti, tra cui il Partito dell’Indipendenza, noto come Istiqlal, capeggiato da Allal Al-Fazi, messo fuori legge nel 1951. Mohammed V si fece portavoce dell’Istiqlal messo fuori legge e chiese personalmente l’indipendenza nel 1952. Tale richiesta provocò la reazione dei francesi che, deponendolo, lo mandarono in esilio in Madagascar, e misero al suo posto Mohammed Ibn Arafa. I francesi, così facendo, scatenarono una rivolta che costrinse la Francia ad avviare un negoziato con i nazionalisti marocchini, che ebbe come conseguenza il rientro in Marocco di Mohammed V e la fine del protettorato francese, e il 2 marzo 1956 venne proclamata l’indipendenza del Marocco.[37]
La Tunisia ottenne la sua indipendenza dalla Francia grazie all’azione del Neo-Destur, un partito nazionalista che aveva il suo leader in Habib Bu Rqiba (meglio noto come Burghiba). Nel 1952 il partito esercitò una pressione insistente sulla Francia, pressioni che presto si tramutarono in manifestazioni e rivolte che la repressione francese non riusciva più a contrastare. Il 20 marzo 1956, dopo che Burghiba riuscì ad ottenere un accordo dalla Francia per l’autonomia, la Tunisia divenne indipendente.[38]
L’indipendenza dell’Algeria, a differenza di quella del Marocco e della Tunisia, fu caratterizzata da una guerra lunga e sanguinosa. Nel 1954 ad Algeri venne costituito, da parte dei nazionalisti algerini, il Front de Libération Nationale (FLN), appoggiato dalla lega araba e da Nasser. In contrapposizione al FLN venne fondato dagli estremisti di destra francesi, che erano contrari all’indipendenza del Paese e perciò volevano che questo rimanesse nella condizione di colonia francese, l’Organisation de l’Armée Secrète (OAS), una organizzazione paramilitare appoggiata anche dall’esercito, che insieme combattevano in nome dell’Algeria francese. La guerra, iniziata nel 1956, terminerà il 18 marzo 1962, quando, con gli accordi di Evian, la Francia del generale De Gaulle riconobbe all’Algeria il principio di autodeterminazione, e il Paese poté ottenere finalmente la sua indipendenza.[39]
In questo particolare contesto politico si inserisce l’ENI di Enrico Mattei. L’azienda di Stato italiana riuscì a instaurare un dialogo con i governi nazionalisti dei Paesi arabi che, dopo anni di colonialismo, avevano conquistato l’indipendenza politica. All’indipendenza politica, questi nuovi governi volevano anche aggiungere l’emancipazione economica: questa poteva essere raggiunta con una gestione diretta delle proprie risorse petrolifere nascoste nel sottosuolo della propria terra. Questo è ciò che prometteva l’ENI di Enrico Mattei, con la proposizione della formula 75/25 e con la possibilità per il governo del Paese produttore di gestire a parità di condizioni con l’ente di Stato italiano tutte e tre le fasi che caratterizzano l’industria petrolifera, ossia la produzione, la raffinazione e la distribuzione.
Mattei sosteneva che i Paesi detentori delle riserve di petrolio dovessero sviluppare il settore industriale, in particolare quello petrolifero, in modo tale da poter limitare l’influenza che le grandi potenze occidentali potevano esercitare su di loro attraverso le compagnie petrolifere anglo-americane. Mattei si proponeva ai governi dei Paesi produttori come l’interlocutore ideale per poter avviare un proprio sviluppo economico, attraverso il quale essi sarebbero giunti ad una autonomia non solo politica, ma anche, e soprattutto, economica. A questo proposito è interessante il discorso che Mattei tenne a Tunisi nel giugno del 1960:
[…] Non ho paura della decolonizzazione. Io credo alla decolonizzazione non solo per ragioni morali di dignità umana, ma per ragioni economiche di produttività. Senza la decolonizzazione non è possibile suscitare nei popoli afroasiatici le energie, l’entusiasmo necessario alla messa in valore dell’Africa e dell’Asia. Ora le ricchezze dell’Africa e dell’Asia sono immense. La geografia della fame è una leggenda: è legata solo alla passività, all’inerzia creata dal colonialismo nelle popolazioni autoctone. Faceva comodo al colonialismo incoraggiare la fatalità, la rassegnazione. […] Il fatto coloniale non è solo politico: è anche, e soprattutto, economico. Esiste una condizione coloniale quando manca un minimo d’infrastruttura industriale per la trasformazione delle materie prime. Esiste una condizione coloniale quando il giuoco della domanda e dell’offerta per una materia prima vitale è alterato da una potenza egemonica: anche privata, di monopolio e di oligopolio. Nel settore del petrolio questa potenza egemonico-oligopolistico è il cartello. […] Io voglio creare qualcosa di più di una raffineria: voglio creare un polo di sviluppo economico del Sud tunisino. Voi mi avete chiesto delle pompe di benzina Azienda Generale Italiana Petroli: io vi ho offerto una rete di stazioni di servizio e di motel che vi risolverà il problema turistico. Voi mi avete chiesto di farvi una raffineria ed io vi offro una industria petrolchimica. Ma vi offro anche un mercato per l’eccedente della vostra produzione e vi offro soprattutto la parità, la cogestione, la formazione di una élite tecnologica perché non siate il ricevitore passivo di una iniziativa straniera, ma siate soggetto, non oggetto, di economia.[40]
Simili argomentazioni certamente facevano presa nei Paesi arabi del Mediterraneo e del Medio Oriente che, sotto l’influenza dei dettami del nazionalismo, oltre a desiderare di liberarsi da qualsiasi forma di colonialismo, percepivano le compagnie anglo-americane come espressione del colonialismo economico. A tal riguardo Matteo Pizzigallo ha osservato:
[…] le società del cartello, in Medio Oriente, diventarono di fatto il baluardo dell’imperialismo occidentale nelle sue nuove forme, forse più sofisticate e meno brutali di quelle del passato più o meno recente, ma non per questo nella sua intima essenza, meno rapace. E proprio come un baluardo «nemico», funzionale agli interessi ed obiettivi inconfessabili della politica estera delle Grandi Potenze, le «sette sorelle» venivano percepite da larghi settori delle popolazioni e, in particolare, da quelli più sensibili all’attiva propaganda dei movimenti arabi nazionalisti, desiderosi di imprimere una maggiore accelerazione ai vari faticosi processi di decolonizzazione appena avviati, ma, soprattutto, desiderosi di liberarsi di qualsiasi forma di «tutela» diretta o indiretta dei paesi stranieri. […] Per Mattei l’unico modo possibile per avvicinarsi al petrolio del Medio Oriente, era quello di utilizzare, assecondandola, la spinta dei movimenti nazionalisti arabi, che puntavano ad emanciparsi dallo sfruttamento delle risorse del proprio sottosuolo a beneficio di pochi privilegiati, per riappropriarsi collettivamente di tali risorse e destinarle alla crescita economico sociale dell’intera comunità nazionale.[41]
L’Egitto, il Marocco, la Tunisia e l’Algeria
Il primo Paese con cui l’ENI iniziò la sua internazionalizzazione fu l’Egitto di Nasser. I rapporti commerciali tra l’ente presieduto da Mattei e l’Egitto iniziarono dal 1954, quando l’ENI, tramite la sua società SNAM, riuscì ad ottenere l’appalto per la realizzazione di un oleodotto di 145 chilometri, la cui funzione era quella di collegare la raffineria di Suez con Il Cairo.[42] L’anno successivo, nel 1955, l’ENI, con l’intento di potenziare le sue attività in Egitto per quanto concerne la ricerca degli idrocarburi, acquisì il 20% della International Egyptian Oil Company (IEOC),[43] un’acquisizione importante, dato che, come spiega Alberto Tonini, la società
aveva rilevato 17 licenze di ricerca e sfruttamento appartenenti ad un’impresa egiziana, Société Coopérative des Pétroles, che quest’ultima aveva ottenuto dal governo del Cairo nel corso del 1952. I primi ritrovamenti di petrolio da parte della IEOC risalgono al febbraio 1954, quando in una delle concessioni sulla costa orientale del golfo di Suez si estrassero i primi barili, seppur in modesta quantità. Al momento dell’ingresso dell’Agip Mineraria nella IEOC, nel marzo 1955, era stato appena avviato lo sfruttamento di un giacimento a Feiran, nel Sinai Occidentale, lungo la costa del golfo di Suez. Sul finire dello stesso anno venne scoperto un secondo giacimento a Bala’im, che si rivelerà di discreta entità, arrivando a fornire da solo quasi la metà di tutto il greggio estratto in territorio egiziano.[44]
Sempre nel 1955, l’ENI ottenne l’incarico da parte del governo egiziano di costruire una raffineria nella periferia del Cairo, e la realizzazione di una rete di distribuzione di Gpl e benzina; per tali attività venne creata una società, la Compagnia Italiana Sviluppo Attività Petrolifere Egiziane, che diede vita a sua volta alla Petromisr, con la partecipazione anche di capitali egiziani.[45] Alberto Tonini spiega le condizioni in cui doveva operare la società:
La cessione di prodotti petroliferi (benzina e Kerosene) da parte della raffineria governativa di Suez doveva avvenire a un costo che consentisse alla nuova società un “congruo margine di utile” al momento della distribuzione al consumo, il riconoscimento della Petromisr dell’esclusiva sulla vendita in Egitto del Gpl prodotto a Suez, e infine la possibilità di ottenere licenze di importazione di Gpl dall’Italia (dove l’ENI era il principale produttore), qualora la quantità disponibile nel paese non fosse risultata sufficiente a coprire la domanda di consumi.[46]
Il 1957 fu un anno davvero importante per l’ENI e per la storia dell’industria petrolifera: in Egitto venne applicata, per la prima volta, la formula 75/25. Dunque non l’Iran ma l’Egitto fu il Paese con cui Mattei sperimentava la formula contrattuale che si discostava nettamente dal tradizionale accordo del fifty-fifty. A questo proposito Claudio Moffa ha osservato:
La “formula ENI”, che ruppe il monopolio e la “legge di mercato” imposti dalle Sette Sorelle a tutti i paesi produttori, venne applicata per la prima volta non con l’Iran dello Scià, ma con l’Egitto di Nasser. Almeno tre ordini di considerazioni confortano tale affermazione. La prima è la cronologia secca dei due accordi con Il Cairo e con Teheran, rispettivamente siglati il 9 febbraio e il 3 agosto 1957, anche se la bozza iraniana era già stata sottoscritta il 14 marzo […]. La seconda considerazione riguarda la sostanziale analogia dei due accordi, almeno per quel che riguarda il “nocciolo duro” della formula ENI, vale a dire la compartecipazione del paese produttore all’impresa petrolifera. […] Del resto – e siamo alla terza considerazione – il primato egiziano era sancito dai documenti ufficiali dell’epoca […].[47]
Il contratto prevedeva che la società IEOC, le cui quote erano detenute dall’ENI e da una società belga, la Petrofina, entrasse in compartecipazione con il governo egiziano, dando vita ad una società mista, la Compagnie Orientale des Petroles (COPE), il cui 51% era detenuto dalla IEOC e il 49% dal governo egiziano. Alla COPE vennero assegnati dei permessi di ricerca in alcune zone situate nel Sinai, in particolare due giacimenti a El Belayim, da cui furono estratti circa due milioni di tonnellate di greggio, che sarebbe stato raffinato per un terzo in Egitto e due terzi nelle raffinerie italiane. L’ENI avendo la volontà di incrementare le ricerche, durante la primavera del 1957, eseguì, sempre nel Sinai, delle esplorazioni ad Abu Rudais, che diedero come risultato la scoperta di un giacimento petrolifero di una certa importanza.[48] Nel 1959 la COPE, con delle ricerche sottomarine, individuò un giacimento offshore[49] a quindici chilometri da Belayim, nel golfo di Suez. La quantità e la qualità del petrolio rinvenute erano buone: grazie a questa scoperta la produzione sarebbe incrementata dalle 154.000 tonnellate del 1961 al 1.974.000 tonnellate del 1964.[50]
Il 1961 fu l’anno in cui si intensificarono i rapporti commerciali tra l’ENI e l’Egitto. Nel settembre di quell’anno, il ministro dell’industria egiziano Aziz Sidki richiese al presidente Mattei delle forniture dall’ENI che sarebbero state pagate dal governo egiziano con il petrolio, su proposta dello stesso Mattei. Aziz Sidki chiese inoltre all’ENI la costruzione di un impianto petrolchimico e di un oleodotto della portata iniziale di 3 milioni di tonnellate e della lunghezza di 700 chilometri, che partendo dal campo di Karatchouk in Siria arrivasse fino al mare. Nello stesso anno l’ENI, con un accordo, scambiò i fertilizzanti azotati prodotti dalla sua controllata ANIC con il petrolio egiziano; 150.000 tonnellate di fertilizzanti vennero venduti all’organizzazione Agricola Egiziana e in cambio l’ENI ricevette 660.000 tonnellate di petrolio greggio.[51]
Il 1958 fu l’anno in cui iniziarono i rapporti commerciali tra l’ENI e il Marocco.
Il Marocco era un Paese che, avendo appena conquistato la sua indipendenza politica, ambiva a svilupparsi attraverso rapporti commerciali che potevano portare a degli investimenti di capitali stranieri che consentissero al Marocco di realizzare un proprio sviluppo industriale, e di conseguenza realizzare uno sviluppo economico. Con la finalità di raggiungere tali obiettivi il Marocco era alla ricerca di un interlocutore ideale, che fosse interessato a investire i suoi capitali nel Paese. Il Marocco trovò il partner ideale nell’Italia, e in particolare nell’ENI di Mattei, che dal 1957 aveva iniziato la sua espansione all’estero nel Medio Oriente. Il Sultano Mohammed V aveva conosciuto Mattei grazie alla mediazione di La Pira; il sindaco di Firenze aveva fatto incontrare i due nella cena tenuta in onore del Sultano in occasione della sua visita a Firenze. Fu proprio in quella circostanza che Mohammed V chiese a Mattei di realizzare, attraverso l’ENI, delle attività in Marocco che potessero far sviluppare il settore industriale petrolifero. Il governo di Rabat, infatti, si era mostrato interessato agli accordi che l’ENI aveva concluso l’anno precedente con Egitto e Iran, con i quali veniva offerta al Paese la possibilità di avere una compartecipazione paritetica nelle imprese destinate allo sfruttamento degli idrocarburi; in tale rapporto di partnership il governo marocchino intravedeva la possibilità di «realizzare il suo programma di valorizzazione delle risorse petrolifere nazionali che sarebbero state molto utili per accelerare l’industrializzazione e lo sviluppo economico del paese».[52] Mattei, che da parte sua aveva l’esigenza di continuare l’espansione all’estero dell’ENI e di cogliere ogni buona opportunità per instaurare nuovi rapporti commerciali atti a realizzare una politica estera per l’Italia nel campo energetico, accolse la richiesta del Sultano e decise di proporre anche al governo di Rabat la formula 75/25, che venne accolta in modo assai positivo. Bruna Bagnato ripercorre con puntualità l’accordo che l’ENI e il Marocco raggiunsero nel luglio 1958:
L’accordo per la ricerca firmato con il Marocco riprendeva la formula già sperimentata al Cairo e a Teheran. Esso prevedeva, in sintesi, la creazione di una società italo-marocchina con capitale paritario, che aveva per scopo la ricerca e la produzione di petrolio. L’AGIP mineraria si faceva carico delle spese su tali aree ma aveva la facoltà di ritirarsi, seppur a determinate condizioni. In caso di scoperta di un giacimento commercialmente sfruttabile, la SOMIP [Société anonyme Marocaine-Italienne des Péetroles] avrebbe rimborsato le spese sostenute dall’AGIP mineraria e si sarebbe fatta carico delle spese di sviluppo e sfruttamento del giacimento scoperto. Era stabilito che il 50 per cento dei profitti netti della SOMIP andasse allo stato, sotto forma di royalty, diritti e tasse, e l’altro 50 per cento fosse diviso tra le due parti contraenti della SOMIP. Ora, poiché era lo stesso Stato marocchino a essere parte della società, la percentuale di utili riconosciuti al paese produttore era del 75 per cento. Il Marocco poteva però lucrare questo ulteriore 25 per cento degli eventuali utili solo a fronte di un diretto impegno imprenditoriale: il carattere innovativo della formula dell’ENI, così come era stata già sperimentata in Egitto e Iran, risiedeva proprio nel fatto che in essa il paese produttore non era un affittuario passivo ma diventava un socio attivo e responsabile dello sfruttamento delle proprie risorse petrolifere. Così Mattei offriva un senso di partecipazione, di comunanza di interessi che le grandi società di atavico colonialismo non potevano dare con un importante effetto psicologico: la formula dell’ENI sembrò elevare la condizione del governo in causa da quello di collettore di tasse e di oggetto di munificenza, a quello di co-industriale, di socio attivo, senza tuttavia che il governo (o la società nazionale che lo esprimeva) partecipasse al rischio di una perdita totale dovuta a un’eventuale assoluta assenza di petrolio.[53]
La creazione della SOMIP, la società mista che si occupava della fase mineraria, ovvero dell’estrazione del greggio, non fu l’unica impresa ad essere creata. Infatti l’ENI, in accordo con il governo marocchino, che voleva trarre dai rapporti con l’ente italiano ulteriori benefici economici come l’aumento dei posti di lavoro, la formazione dei quadri aziendali e l’incremento del reddito, decise di creare delle società attive nel settore della raffinazione e della distribuzione a cui il Marocco avrebbe partecipato alla pari con l’ENI. In tal modo il Marocco avrebbe avuto la possibilità di sviluppare un’industria petrolifera completa, che gestisse l’estrazione, la raffinazione e la distribuzione. Il 18 febbraio 1959 il governo marocchino e l’ENI raggiunsero un accordo per la creazione della Société anonyme Marocaine-Italienne de Raffinage (SAMIR), azienda destinata alla raffinazione del greggio,[54] e nell’ottobre dello stesso anno venne creata l’AGIP Casablanca, destinata a distribuire e a vendere i prodotti petroliferi. Con l’AGIP Casablanca Mattei diede la possibilità al Marocco di avere su tutto il territorio una efficiente rete di punti di distribuzione e di stazioni di servizio.[55]
Le ricerche petrolifere effettuate dall’ENI in Marocco diedero risultati negativi e vennero sospese del tutto nel 1967.
Nel 1960 l’ENI fece il suo ingresso in Tunisia. Nell’aprile di quell’anno Mattei ebbe la possibilità di incontrare Habib Bourghiba a Salsomaggiore, dove il leader che aveva portato la Tunisia all’indipendenza si era recato per le cure termali. Grazie a quell’incontro si crearono le premesse per l’accordo che venne firmato successivamente a Tunisi, il 10 giugno, con il ministro dell’industria Abassi, e il ministro delle finanze Mestiri. Il contratto prevedeva lo sfruttamento del suolo tunisino secondo le regole della formula 75/25; inoltre era prevista la costruzione di una raffineria nel porto di La Skhira, che sarebbe stata detenuta pariteticamente dall’ENI e dal governo della Tunisia.[56] In Tunisia si ottennero «risultati molto significativi nel 1964, con l’individuazione del giacimento di El Borma, che rese la Tunisia, nel triennio successivo, la principale zona di produzione di greggio del gruppo».[57]
I rapporti tra l’ENI e l’Algeria iniziarono quando questo Paese non aveva ancora raggiunto l’indipedenza dalla Francia. Mattei decise di appoggiare la causa dei ribelli algerini, che combattevano da anni con l’obiettivo di rendere libero il loro Paese dalla dominazione francese; il presidente dell’ENI sperava che dando il suo supporto alla guerra d’indipendenza algerina avrebbe conquistato la fiducia del futuro governo dell’Algeria indipendente, affinché si potessero realizzare degli accordi commerciali che consentissero all’ENI di accedere alle riserve di idrocarburi, e in particolare al metano. Ad aiutare Mattei a instaurare i rapporti con il FLN algerino fu prima Italo Pietra, ex comandante partigiano e inviato speciale del Corriere della Sera, e poi Mario Pirani, giornalista del quotidiano comunista l’Unità. Pirani venne assunto dall’ENI come funzionario e gli vennero dati dei compiti che erano simili a quelli svolti da un ambasciatore: il suo lavoro consisteva nello sviluppare relazioni con i rivoluzionari algerini, fare da tramite per i finanziamenti, agevolare e far approvare dalle autorità italiane il soggiorno degli algerini che venivano chiamati in Italia a studiare alla Scuola di studi superiori sugli idrocarburi di San Donato Milanese, consegnare le opinioni del FLN agli organi di stampa italiani e al Giorno (quotidiano controllato dall’ENI), in modo tale da dare l’appoggio politico, attraverso la stampa, alla causa algerina.[58] Pirani, in una intervista, ha raccontato in prima persona il particolare lavoro che svolse per l’ENI:
Durante l’estate 1961, [Mattei] mi chiamò, me ne ricordo… era in una villetta a Borca di Cadore, sulle Alpi… mi chiamò e mi disse: “senti, ho deciso, ti assegnerò un incarico molto importante, andrai a Tunisi, dove si è appena trasferito il GPRA, e cioè il Governo Provvisorio della Repubblica Algerina. Ti occuperai della gestione dei rapporti tra me e il GPRA per preparare prima di tutto… per cercare di dare agli algerini ciò che possiamo dar loro fin da adesso, per stabilire le basi di una relazione futura, quando l’indipendenza sarà raggiunta. Perciò io, un giorno del mese di Agosto 1961, partii sotto copertura per Tunisi con delle lettere di presentazione ufficiale per il GPRA e per gli altri del Maghreb– non potevamo fare queste cose ufficialmente, dato che il governo italiano era coinvolto nell’Alleanza Atlantica e aveva anche dei rapporti con il governo francese che non gli permettevano di prendere la stessa posizione di Mattei; ho quindi aperto un ufficio per i rapporti con la stampa in Africa del Nord… era una copertura. […] Dunque ci siamo impegnati a sostenere la causa algerina attraverso la stampa italiana, nella quale eravamo molto influenti; ci siamo impegnati ad aiutare i rappresentanti algerini che avevano bisogno di viaggiare in Europa con dei visti italiani che abbiamo provato a procurare loro, abbiamo offerto – e gli algerini ne hanno approfittato- dei posti alla Scuola Nazionale degli Idrocarburi per preparare i dirigenti di domani. E anche molte altre cose…[59]
Mattei, forse, non si limitò a prestare aiuto solamente tramite il lavoro di ambasciata svolto da Pirani, ma, probabilmente, come afferma Nico Perrone, «Mattei avrebbe fatto rifornire di armi i ribelli algerini attraverso un mercante».[60]
Quando l’Algeria nel marzo 1962 ottenne l’indipendenza, Mattei cercò di realizzare un accordo con il nuovo governo algerino, che prevedeva lo sfruttamento del gas e la costruzione di un metanodotto che dal Paese nordafricano trasportasse il gas naturale fino in Italia. L’Algeria si rese disponibile alla realizzazione dell’ambizioso progetto di Mattei, purtroppo, però, la tragica morte del presidente dell’ENI bloccherà lo sviluppo del progetto. Dopo la morte di Mattei, infatti, la nuova dirigenza dell’ENI, formata dal presidente Marcello Boldrini e dal vicepresidente Eugenio Cefis (a cui erano stati affidati i poteri decisionali), decise di rinunciare ad alcuni grandi investimenti, tra cui la realizzazione del metanodotto algerino. Tuttavia i rapporti tra l’ENI e l’Algeria rimasero vivi, dato che entrambe le parti avevano interesse a realizzare il metanodotto, e nel 1973, l’allora presidente dell’ENI Raffaele Girotti, raggiunse un accordo che prevedeva l’acquisto da parte dell’ente italiano di gas naturale dalla SONATRACH (Société Nationale pour la Recherche, la Production, le Transport, la Transformation, et la Commercialisation des Hydrocarbures), e la realizzazione da parte della SNAM di un metanodotto che trasportasse il gas naturale dall’Algeria all’Italia.[61] A proposito dell’accordo che venne raggiunto nel 1973, scrive Alessio Zanardo:
L’accordo tra ENI e Sonatrach prevedeva un’importazione di circa undici miliardi di metri cubi l’anno di gas naturale a un prezzo, alla frontiera tunisina, di 8,23 lire al metro cubo di gas con potere calorifico equivalente a quello della Pianura Padana, per una durata di 25 anni. La SNAM avrebbe invece costruito il metanodotto che, attraversando la Tunisia, il Canale di Sicilia e l’isola quindi lo Stretto di Messina e tutta l’Italia centro meridionale, si sarebbe ricollegato al sistema dei gasdotti in Emilia Romagna.[62]
Il metanodotto Transmed iniziò ad essere costruito nel 1978 e venne inaugurato nel 1983. Nel 2000 l’Algeria volle intitolare il metanodotto alla figura di Enrico Mattei, ribattezzandolo con il nome del grande manager italiano.[63]
Casi particolari: la Libia e l’Iraq
Se con l’Egitto, l’Iran, il Marocco, la Tunisia e l’Algeria Mattei era riuscito a stabilire dei rapporti commerciali, con la Libia e l’Iraq l’ENI incontrò delle difficoltà nel fare il suo ingresso, oppure, come nel caso iracheno, l’ente italiano non riuscì ad ottenere alcuna concessione. Le ragioni delle difficoltà dell’ENI nel fare il suo ingresso in Libia e le ragioni dell’insuccesso nel caso dell’Iraq, risiedono nel fatto che in questi due Paesi non erano presenti le stesse condizioni politiche che erano necessarie affinché l’ENI potesse fare facilmente breccia con la formula 75/25. Nel caso egiziano, iraniano, marocchino e tunisino, Mattei incontrò un contesto politico che giocò in suo favore. In queste realtà il nazionalismo trovò un terreno molto fertile dando vita a delle rivoluzioni che portarono Paesi come il Marocco, l’Algeria e la Tunisia all’indipendenza dalla dominazione francese, e nel caso dell’Egitto, con la Crisi di Suez, il Paese di Nasser riuscì a liberarsi dall’influenza britannica e francese. In Iran la Crisi di Abadan ebbe come conseguenza la creazione di un ente statale, la NIOC, che gestiva i giacimenti non controllati dal consorzio formato dalle major, dando al Paese la possibilità di stabilire rapporti commerciali più vantaggiosi con partner diversi. Inoltre, nei Paesi del mondo arabo, era stato ben recepito l’insegnamento del nazionalismo arabo propagandato da Nasser, ovvero che l’indipendenza, soprattutto quella economica, poteva essere conquistata grazie ad uno sviluppo di una propria industria petrolifera. Questo messaggio, veicolato dal nazionalismo arabo, spinse diversi Paesi a cercare il dialogo con partner che avessero la volontà di concedere sia una rendita più alta attraverso una suddivisione degli utili in favore del Paese produttore, sia di offrire la possibilità di partecipare in modo attivo e a parità di condizioni nelle attività legate all’industria del petrolio. La formula 75/25 proposta da Mattei in queste realtà permise all’ente da lui diretto di fare il suo ingresso, in quanto l’opportunità per questi Paesi di avere un 25% in più degli utili e gestire alla pari con l’ENI tutti i settori dell’industria petrolifera, sembrava offrire ad essi la possibilità di realizzare le proprie ambizioni nazionalistiche. Un simile contesto politico, che era necessario affinché la formula 75/25 esercitasse una forza attrattiva sui governi dei Paesi produttori, non era presente in Libia e in Iraq.
La Libia, ottenuta la sua indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1951, era rimasto un Paese molto legato al governo di Londra e agli Stati Uniti d’America, e non riuscì per tale ragione a dare vita ad una sua politica che fosse completamente autonoma.[64] Nonostante questo nel 1956, l’allora Primo Ministro Mustafa Ahmad Ben Halim, durante una sua visita in Italia, chiese al Ministro degli Affari esteri italiano di incoraggiare l’AGIP Mineraria, e quindi l’ENI, a fare investimenti nel settore dell’industria petrolifera nel suo Paese.[65] In seguito a questa richiesta l’ENI presentò una domanda per l’ottenimento di un permesso di esplorazione in tre aree situate nel deserto di Fezzan. L’accordo, però, venne bloccato all’improvviso dal nuovo governo libico, Abdul Majid Kubar, che sostituì Ben Halim. L’accordo venne fatto saltare per due ragioni: la Commissione petrolifera libica ritenne che non era possibile dare delle concessioni all’ENI, in quanto la natura statale dell’azienda italiana non era compatibile con quanto prevedeva la legge mineraria libica,[66] ovvero di riservare le concessioni solo alle compagnie private;[67] la seconda ragione risiedeva nel fatto che al nuovo governo non interessavano accordi che offrissero la parità di condizioni nella gestione e nello sfruttamento delle risorse. Il governo di Abdul Majid Kubar aveva solo l’interesse a ottenere vantaggi personali dai proventi che potevano derivare dall’industria petrolifera. Questa situazione venne fatta presente ai vertici dell’ENI da Mario Mondello, l’ambasciatore italiano a Tripoli:
La formula ENI qui interessa poco o niente. Qui, in realtà, l’interesse della Libia non è il primo pensiero di tutti i dirigenti: questi, nell’intervento di una nuova compagnia, vedono innanzi tutto il mezzo o la speranza di ottenere qualche vantaggio personale.[68]
L’ENI successivamente riuscì ad entrare nel mercato petrolifero libico, con una strategia che le permise di aggirare l’ostacolo della legge libica. La strategia consisteva nel presentare una richiesta di concessione tramite una società privata che fosse segretamente controllata dall’ENI. A suggerire questa mossa all’ente presieduto da Mattei fu il ministro delle Finanze Otman, con cui un dirigente dell’ENI ebbe modo di parlare nel 1958:
Il sig. Otman ha approfittato dell’occasione per discutere nuovamente l’argomento del rifiuto della concessione di ricerca all’Agip Mineraria. Il Ministro delle Finanze, dopo avere dichiarato di essere sempre stato favorevole al rilascio di concessioni di ricerche all’AGIP, anche perché l’on. Mattei aveva offerto condizioni più favorevoli di quelle che il Governo Libico è riuscito ad ottenere dalle altre società attualmente operanti, ha fatto presente che a suo tempo, nemmeno un colloquio avuto da S.E. Prato con il Sovrano, ha dato esito favorevole, per cui si deve ritenere che le pressioni esterne (compagnie petrolifere americane) sono state tali da rendere vani tutti i passi tentati per ogni via, compresa quella diplomatica. […]
Ciò premesso, il Ministro ritiene che l’Agip, se è ancora interessata all’ottenimento di concessioni per ricerche, debba presentarsi sotto altra veste, ad esempio l’Asseil [società di proprietà dell’ENI impegnata nel settore della distribuzione di prodotti petroliferi] che chiede la concessione, che mediante accordo preventivo con l’Agip, e dietro versamento di un compenso minimo, tanto per giustificare l’operazione, venga sfruttata dall’Agip Mineraria. […]
Il momento è favorevole per le ragioni su esposte.
In data odierna ho informato S.E. Prato degli sviluppi della pratica. L’Ambasciatore mi ha confermato che anche a lui alcuni membri del governo gli avevano velatamente fatto capire che l’AGIP per avere probabilità di successo, dopo i precedenti, doveva presentarsi sotto altra forma.[69]
Venne quindi creata la Compagnia Ricerche Idrocarburi (CORI), che ottenne, il 19 novembre 1959, delle concessioni in Cirenaica. L’ENI, tramite la controllata CORI, accettava la tradizionale formula del fifty-fifty, e in più acconsentiva a pagare una royalty del 17%. Inoltre si accettava la possibilità per il governo libico di associarsi al 30% con la società CORI per tutte le attività legate alla concessione, ovvero la ricerca, lo sfruttamento e la vendita del petrolio.[70]
In Iraq, a seguito del colpo di stato che permise a Abdel Karim Kassem di prendere il potere ponendo fine alla monarchia hascemita, il nuovo governo di Baghdad aveva l’intenzione di nazionalizzare l’industria petrolifera, controllata dalle major attraverso la società consorzio Iraq Petroleum Company (IPC). L’intento era quello di riappropriarsi dell’industria petrolifera, in maniera tale da avere forti introiti che andassero ad arricchire le casse dello Stato iracheno e poter dare così avvio ai programmi di sviluppo per il Paese progettati da Kassem.
Mattei iniziò a interessarsi all’Iraq all’indomani del colpo di stato di Kassem, sperando in una nazionalizzazione dell’industria petrolifera che avrebbe permesso all’ENI di dare vita ad accordi commerciali analoghi a quelli realizzati in Egitto, Iran, Marocco e Tunisia. Il nuovo governo dell’Iraq si mosse anch’esso al fine di entrare in contatto con l’ENI, dato che era interessato alla possibilità di sottrarre il petrolio al controllo della IPC. Scrive Alberto Tonini:
Nel 1958, subito dopo il colpo di stato a Baghdad, il nuovo regime iracheno studiò la possibilità di sostituire l’esperienza e la tecnologia della Iraq Petroleum Company senza mettere a repentaglio la produzione di greggio: a questo miravano le consultazioni avviate con Mattei.[71]
Mattei propose l’ENI all’Iraq come un nuovo partner privilegiato, che avrebbe potuto sostituire con le sue competenze la IPC:
“Abbiamo la nostra esperienza”, dichiarò Mattei. “Abbiamo a disposizione migliaia di ingegneri, geologi, chimici e altri specialisti. Attualmente ci troviamo nella stessa situazione delle grandi compagnie petrolifere”.[72]
Mattei certamente sopravvalutava le capacità dell’ENI. In realtà l’ente italiano non poteva avere la pretesa di sostituirsi alla IPC dato che, paragonata alle multinazionali del petrolio, era un’azienda ancora troppo piccola e debole, in quanto il suo sviluppo internazionale era iniziato da pochi anni. Del resto il nuovo governo iracheno si rese conto che i tempi per una nazionalizzazione non erano maturi e si sarebbe corso un grave rischio nel metterla in atto, in quanto l’Iraq non aveva le competenze per gestire da solo l’industria del petrolio e non poteva correre il rischio di sostituire la IPC con un altro partner, come ad esempio l’ENI, che non poteva offrire le stesse garanzie assicurate dalle major. L’Iraq, in altri termini, con una nazionalizzazione avrebbe messo a rischio un settore industriale che costituiva l’unico mezzo di sostentamento del Paese. Spiega Massimo Bucarelli:
Il petrolio era la principale risorsa dell’economia nazionale (se non l’unica): alla fine degli anni Cinquanta, era dalle royalties petrolifere che derivavano il 60% delle entrate pubbliche, il 40% del prodotto interno lordo, il 45% del bilancio ordinario dello Stato, il 95% del budget destinato ai piani di sviluppo, l’80% della valuta straniera, necessaria per l’importazione di materie prime, macchinari industriali, beni di consumo e prodotti alimentari. In buona sostanza, la vita dell’Iraq e il suo sviluppo dipendevano ormai in maniera quasi esclusiva dall’estrazione del greggio. Al di là dei proclami ad uso propagandistico interno, diretti contro il predominio straniero in un settore strategico quale quello petrolifero, il governo di Baghdad era consapevole che il ricorso a decisioni e atti unilaterali nei confronti delle compagnie sarebbe stato esiziale per l’economia nazionale e per la sopravvivenza del regime stesso. A Baghdad, si aveva ben presente quanto era accaduto all’inizio degli anni Cinquanta nel vicino Iran, in occasione della nazionalizzazione dell’industria petrolifera, contro cui le multinazionali avevano reagito, attuando un vero e proprio embargo sulle esportazioni di greggio iraniano e portando di fatto al collasso l’economia del paese. Conseguentemente, il regime repubblicano riprese i negoziati avviati dai precedenti governi con la dirigenza della Ipc, per migliorare i termini contrattuali in vigore, impegnandosi a rispettare gli accordi del 1952 e senza minacciare nazionalizzazioni ed espropriazioni.[73]
Dunque la ragione per la quale Mattei non riuscì ad inserire l’ENI in Iraq risiede nel fatto che in questo Paese non vi erano le condizioni per procedere ad una nazionalizzazione del petrolio che avrebbe potuto creare un contesto che potesse giocare a favore dell’ENI, permettendole di applicare la formula 75/25. L’ente italiano per quanto riguarda l’Iraq si dovette accontentare solo di un contratto di consulenza siglato nel 1962.[74]
[1] Cfr. ALBERTO TONINI, Il sogno proibito: Mattei, il petrolio arabo e le sette sorelle, Firenze, Polistampa, 2003, pp. 15-18.
[2] Cfr. ivi, pp. 36-38.
[3] Ivi, p. 38.
[4] In economia il termine cartello sta ad indicare una forma di coalizione tra imprese, detta anche sindacato industriale o consorzio: un gruppo d’imprese dello stesso ramo di produzione si accordano per sospendere la concorrenza, impegnandosi a rispettare particolari condizioni di vendita, livelli minimi di prezzo, massimi di produzione o zone di smercio stabile.
[5] Cfr. ANTHONY SAMPSON, Le sette sorelle. Le grandi compagnie petrolifere e il mondo che hanno creato, Milano, Mondadori, 1976, pp. 90-103.
[6] Cfr. Ivi, pp. 106-110.
[7] LUIGI BAZZOLI, RICCARDO RENZI, Il miracolo Mattei, Milano, Rizzoli, 1984, p. 31.
[8] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, Mitologia, storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, Milano, Feltrinelli, 2006,p. 46.
[9] Ivi, p. 47.
[10] Cfr. ibidem.
[11] MARCELLA EMILIANI, Medio Oriente: Una storia dal 1918 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 312.
[12] Ivi, p. 313.
[13] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., p. 88.
[14] Ivi, p. 89.
[15] Cfr. MARCELLA EMILIANI, op. cit., p. 313.
[16] Cfr. LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., pp. 90-91.
[17] STEFANO BELTRAME, Mossadeq. L’Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della rivoluzione islamica, Catanzaro, Rubbettino, 2009, pp. 194-195.
[18] Per l’operazione Ajax cfr. MARCELLA EMILIANI, op. cit., pp. 314-316.
[19] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., p. 94.
[20] Ivi, p. 98.
[21] Cfr. ILARIA TREMOLADA, La via italiana al petrolio: l’ENI di Enrico Mattei in Iran (1951-1958), Milano, L’Ornitorinco, 2011, pp. 108-134.
[22] Ivi, pp. 134-135. La lettera che Mattei scrisse a Zoppi, pubblicata da Ilaria Tremolada nel suo studio, mette fortemente in dubbio l’episodio dello “schiaffo iraniano”, ossia il fatto che Mattei, avendo chiesto alle compagnie anglo-americane di essere ammesso al consorzio per l’Iran, al fine di tutelare gli interessi italiani per quanto concerne l’approvvigionamento delle fonti di energia, avrebbe ricevuto un umiliante rifiuto da parte delle major, che con prepotenza avrebbero escluso l’ENI dalla spartizione del petrolio iraniano. Da tale rifiuto sarebbe nata l’ostilità di Mattei verso le sette sorelle e non solo; Mattei, volendo reagire all’umiliante esclusione, decise di mettere in atto un’aggressiva politica estera volta a stabilire accordi commerciali con i Paesi produttori, proponendo ad essi formule contrattuali che garantissero condizioni migliori. Per molto tempo questa è stata la versione dei fatti tramandata dalla gran parte dei biografi che si sono occupati di studiare la vicenda di Enrico Mattei. A tramandare questa versione dei fatti (tra l’altro senza citare fonti attendibili) e ad attribuire al presunto rifiuto le ragioni della politica estera dell’ENI sono: GIUSEPPE ACCORINTI, Quando Mattei era l’impresa energetica. Io c’ero, Matelica, Halley, 2006, p. 87; LUIGI BAZZOLI, RICCARDO RENZI, op. cit., pp. 175-176; PAUL H. FRANKEL, Petrolio e potere: Enrico Mattei, Firenze, La nuova Italia, 1970, p. 96; CARLO MARIA LOMARTIRE, Mattei. Storia dell’italiano che sfidò i signori del petrolio, Milano, Le Scie Mondadori, 2004, pp. 195-197; MANLIO MAGINI, L’Italia e il petrolio tra storia e cronologia, Milano, Edizioni Mondadori, 1976, p. 130; ALBERTO MARINO, Enrico Mattei deve morire! Il sogno senza risveglio di un paese libero, Roma, Castelvecchi, 2014, p. 42; ITALO PIETRA, Mattei, la pecora nera, Milano, Sugarco, 1987, pp. 103-104; DANIEL YERGIN, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1996, p. 426.
[23] Cfr. ILARIA TREMOLADA, La politica petrolifera italiana in Iran:1951-1957 in DAVIDE GUARNIERI (a cura di), Enrico Mattei. Il comandante partigiano, l’uomo politico, il manager di stato, Pisa, BFS Edizioni, 2007, pp. 67-84.
[24] Ivi, pp. 85-86.
[25] La formula contrattuale elaborata dalla NIOC è passata alla storia come “formula Mattei” a causa dei biografi che ne hanno attribuito al presidente dell’ENI la paternità. Volendo ricordare solo alcuni tra i biografi più noti di Mattei, hanno attribuito la paternità della formula 75/25 al fondatore dell’ENI GIUSEPPE ACCORINTI, op. cit., p. 87 e pp. 104-105; LUIGI BAZZOLI, RICCARDO RENZI, op. cit., pp. 189-192; BENITO LI VIGNI, Enrico Mattei. L’uomo del futuro che inventò la rinascita italiana, Roma, Editori Riuniti, 2014, p. 140; CARLO MARIA LOMARTIRE, op. cit., p. 244; RAFFAELE MORINI, Mattei. Il partigiano che sfidò le sette sorelle, Milano, Mursia, 2011, pp. 168-171; NICO PERRONE, Enrico Mattei, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 78-79. È probabile che anche gli atteggiamenti autocelebrativi di Mattei abbiano contribuito a consolidare la convinzione che la paternità della formula fosse dell’ENI. Mattei durante un’intervista televisiva alla RAI del 12 aprile 1961, parlando della formula 75/25, lasciò intendere che questa fosse dell’ENI: «[…] Vede, l’ENI ha iniziato una nuova formula, che è quella di pagare i diritti che pagano gli altri e in più di interessare il Paese produttore al 50% nello sviluppo delle proprie risorse […]» (ENRICO MATTEI, Scritti e discorsi, Milano, Rizzoli, 2012, p. 776). È interessante notare che, nonostante lo studio di Ilaria Tremolada sia stato pubblicato per la prima volta nel 2007, e poi nuovamente nel 2011, alcuni studiosi, le cui pubblicazioni sono posteriori allo studio della Tremolada, commettono ancora l’errore di attribuire a Mattei la paternità della formula 75/25. È il caso, per fare alcuni esempi, di Alberto Marino, che nel suo libro scrive: «il piano presentato da Mattei alle autorità di Teheran era sicuramente innovativo e andava a infrangere la formula tradizionale del fifty-fifty del cartello delle sette sorelle […]» (ALBERTO MARINO, op. cit., p. 23). Anche Marco Valerio Solia attribuisce la paternità della formula all’ENI di Mattei (Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, Mattei, obiettivo Egitto. L’ENI, il Cairo, Le sette sorelle, Roma, Armando editore, 2016,pp. 86-93).
[26] http://www.academia.edu, MASSIMO BUCARELLI, All’origine della politica energetica dell’ENI in Iran: Enrico Mattei e i negoziati per gli accordi petroliferi del 1957, p. 3.
[27] ILARIA TREMOLADA, op. cit., in DAVIDE GUARNIERI (a cura di), op. cit., p. 90.
[28] Cfr. ILARIA TREMOLADA, La via italiana al petrolio, op. cit., pp. 189-281.
[29] Cfr. DANIELE POZZI, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe: tecnologia, conoscenza e organizzazione nell’AGIP e nell’ENI di Enrico Mattei, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 422-423.
[30] Cfr. MARCELLA EMILIANI, op. cit., pp. 95-102.
[31] DANIEL YERGIN, op. cit., pp. 407-408.
[32] Cfr. MARCELLA EMILIANI, op. cit., pp. 103-109.
[33] Ivi, p. 109.
[34] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., pp. 115-116.
[35] Cfr. ivi, p. 118.
[36] Cfr. MARCELLA EMILIANI, op. cit., pp. 113-120.
[37] Cfr. ivi, pp. 138-139.
[38] Cfr. ivi, p. 139.
[39] Cfr. ivi, pp. 141-155.
[40] ENRICO MATTEI, op. cit., pp. 730-731.
[41] MATTEO PIZZIGALLO, Diplomazia parallela e politica petrolifera nell’Italia del secondo dopoguerra in MASSIMO DE LEONARDIS (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 143-149.
[42] Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, op. cit., p. 48.
[43] Cfr. Ivi, p. 57.
[44] ALBERTO TONINI, op. cit., p. 66.
[45] Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, op. cit., p. 58.
[46] ALBERTO TONINI, op. cit., p. 68.
[47] http://www.academia.edu, CLAUDIO MOFFA, Dalla guerra di Suez all’attentato di Bascapè: l’ombra di Israele sul “caso Mattei”, p. 3. Claudio Moffa, nel suo articolo, parla di formula ENI, attribuendone la paternità a Mattei o, più in generale, all’ENI. È stato chiarito in precedenza come in realtà la paternità della formula 75/25 sia da attribuire alla NIOC, e quindi agli iraniani. L’osservazione del prof. Moffa, secondo cui la formula è stata inaugurata con l’Egitto di Nasser e non con l’Iran dello Scià Reza Pahlavi, è corretta, ma va sottolineato che tale primato dell’Egitto è uno dei diversi motivi per cui si è consolidata la convinzione, fra i diversi biografi di Mattei, che la formula 75/25 fosse un’invenzione del fondatore dell’ENI.
[48] Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, op. cit., pp. 86-87.
[49] Nell’industria petrolifera il termine offshore indica la ricerca degli idrocarburi (petrolio e gas naturali) nel mare.
[50] Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, op. cit., p. 115.
[51] Cfr. Ivi, pp. 132-135.
[52] BRUNA BAGNATO, Petrolio e politica. Mattei in Marocco, Firenze, Polistampa, 2004, p. 143.
[53] Ivi, p. 152.
[54] Cfr. Ivi, pp. 227-231.
[55] Cfr. Ivi, pp. 236-245.
[56] Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, op. cit., p. 126.
[57] DANIELE POZZI, op. cit., pp. 433-434.
[58] Cfr. NICO PERRONE, op. cit., pp. 121-122.
[59] MARIA BATTAGLIA, I ricordi di un ex «ambasciatore» inviato speciale di Mattei per gli affari petroliferi nel Maghreb. Intervista a Mario Pirani, scrittore, giornalista del quotidiano «La Repubblica» in AMBASCIATA d’ITALIA. ISTITUTO ITALIANO di CULTURA, Enrico Mattei e l’Algeria durante la Guerra di Liberazione Nazionale, Atti del Convegno organizzato il 7 dicembre 2010 a Algeri, pp. 47-48.
[60] NICO PERRONE, op. cit., p. 122. Perrone basa questa sua affermazione su una voce contenuta in un rapporto della Guardia di Finanza. Per la fonte consultata da Perrone cfr. ivi, p. 175.
[61] Cfr. ALESSIO ZANARDO, Dall’autarchia all’austerity. Ceto politico e cultura d’impresa nell’industria nazionale del metano (1940-1973), Roma, Aracne, 2012, pp. 306-317.
[62] Ivi, p. 317.
[63] Cfr. http://www.academia.edu, ROSARIO MILANO, L’ENI e l’Algeria (1963-1973), p. 533.
[64]Cfr. FEDERICO CRESTI, MASSIMILIANO CRICCO, Storia della Libia contemporanea. Dal dominio ottomano alla morte di Gheddafi, Roma, Carocci, 2012, pp. 141-164.
[65] Cfr. ILARIA TREMOLADA, Nel mare che ci unisce. Il petrolio nelle relazioni tra Italia e Libia, Milano, Mimesis, 2015, p. 111.
[66] Per i dettagli della legge mineraria libica Cfr. FEDERICO CRESTI, MASSIMILIANO CRICCO, op. cit., pp. 165-169.
[67] Cfr. ILARIA TREMOLADA, Nel mare che ci unisce, op. cit., pp. 138-144.
[68] Ivi, p. 156.
[69] Ivi, pp. 152-153.
[70] Cfr. Ivi, p. 160.
[71] ALBERTO TONINI, L’ENI alla ricerca di un partner arabo: Egitto e Iraq, 1955-62, p. 215,(https://flore.unifi.it/handle/2158/316679?mode=full.7#.X7eXqlVKjX4).
[72] Ivi, p. 219.
[73] http://www.academia.edu, MASSIMO BUCARELLI, L’ENI e la questione petrolifera in Iraq negli anni Sessanta, p. 453.
[74] Cfr. ILARIA TREMOLADA, Nel mare che ci unisce, op. cit., pp. 103-105.

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