Il 12 aprile del 1961, Enrico Mattei, presidente dell’ENI, partecipò ad una puntata della trasmissione televisiva della RAI “Tribuna politica”, condotta dal giornalista Gianni Granzotto. Durante tutto l’episodio, Mattei venne a lungo intervistato da alcuni giornalisti in merito alle attività svolte dall’azienda di Stato, e il presidente, rispondendo alle domande, espose l’operato dell’ENI.

   L’intervista iniziò con una semplice domanda di Granzotto, il quale chiese a Mattei di spiegare al pubblico italiano che cosa era l’ENI. Il presidente invece di rispondere direttamente, iniziò a raccontare una storia, i cui protagonisti erano dei grossi cani da caccia e un gattino piccolo, debole e magro.

   Una ventina di anni fa ero un buon cacciatore e andavo molto spesso a caccia. Avevo due cani, un bracco tedesco e un setter, e, cominciando all’alba e finendo a sera, su e giù per i canaloni, i cani erano stanchissimi. Ritornando a casa dai contadini, la prima cosa che facevamo era dare da mangiare ai cani e gli veniva dato un catino di zuppa, che forse bastava per cinque. Una volta vidi entrare un piccolo gattino, così magro, affamato, debole. Aveva una gran paura, e si avvicinò piano piano. Guardò ancora i cani, fece un miagolio e appoggiò una zampina al bordo del catino. Il bracco tedesco gli dette un colpo lanciando il gattino a tre o quattro metri, con la spina dorsale rotta. Questo episodio mi fece molta impressione. Ecco, noi siamo stati il gattino, per i primi anni, avendo contro una massa di interessi paurosi. Ma abbiamo seguitato a lavorare, a rafforzarci, cercando di non farci colpire. Il tentativo era o di soffocarci o di mantenerci deboli (ENRICO MATTEI, Scritti e discorsi, Milano, Rizzoli, 2012, p. 770).

L’aneddoto raccontato da Mattei spiegò al pubblico in maniera semplice ed efficace la realtà che dovette affrontare l’ENI quando qualche anno prima iniziò a fare il suo ingresso nel mercato petrolifero mondiale, e, in particolare, nel Medio Oriente. La produzione petrolifera mediorientale, infatti, era controllata dalle sette grandi compagnie anglo-americane, e cioè: Standard Oil of New Jersey, conosciuta come Esso (americana); Standard Oil of New York, conosciuta come Mobil (americana); Texas Oil Company, conosciuta come Texaco (americana); Standard Oil of California, conosciuta come Chevron (americana); Gulf Oil (americana); Anglo Persian Oil Company, conosciuta come British Petroleum (inglese); Royal Dutch Shell, conosciuta come Shell (anglo-olandese). Queste sette compagnie detenevano la produzione di greggio mediorientale attraverso il controllo dei cinque grandi consorzi petroliferi che operavano nel Medio Oriente: Iraq Petroleum Company in Iraq (IPC); Arabian American Oil Company in Arabia Saudita (ARAMCO); Consorzio per l’Iran in Iran; Bahrain Petroleum Company in Bahrain; Kuwait Oil Company in Kuwait. Ciascuna delle sette major aveva una quota di partecipazione in ognuna delle cinque società-consorzio (cfr. ANTHONY SAMPSON, Le sette sorelle. Le grandi compagnie petrolifere e il mondo che hanno creato, Milano, Mondadori, 1976, pp. 90-103; 106-110; 159-191). Ad essere esclusi dalla possibilità di avere una percentuale di partecipazione nei cinque consorzi, e, di conseguenza, ad essere esclusi dalla possibilità di ottenere delle concessioni di ricerca in Medio Oriente per vie dirette, erano i piccoli operatori, quale era l’ENI di Mattei, e gli indipendenti (nell’industria petrolifera, il termine “operatore indipendente” sta a indicare «qualsiasi società che non sia compresa tra le sette maggiori: vale a dire qualsiasi compagnia che sia priva di un sistema globale di produzione, trasporto, raffineria e marketing» [Ivi, p. 196]).

   L’aneddoto narrato da Mattei, probabilmente, ebbe anche l’obiettivo di dare una forte carica emotiva allo scontro che l’azienda di Stato italiana aveva avuto con le sette multinazionali del petrolio, o con alcune di esse. Spesso Mattei accusava le major di ostacolare l’ENI nella sua espansione all’estero o di escluderla con prepotenza e arroganza dalla spartizione delle risorse petrolifere. La metafora della storiella allora è chiara: le multinazionali controllano tutto il petrolio del Medio Oriente (i due cani da caccia che mangiano un catino pieno di zuppa che bastava per cinque) e con prepotenza escludono le altre compagnie petrolifere dalla spartizione della fonte di energia (il gattino piccolo, magro e debole che cerca di avvicinarsi al catino ma viene ucciso dai due cani da caccia). In realtà, le difficoltà incontrate dall’ENI nel fare il suo ingresso in Medio Oriente sono da imputarsi alla complessa situazione del mercato mediorientale e non tanto ad una presunta ostilità delle sette multinazionali nei confronti dell’ente italiano. L’ENI da nuovo arrivato quale era, se voleva ritagliarsi un suo spazio in Medio Oriente per l’approvvigionamento del petrolio, doveva cercare altre vie, alternative a quella dell’ingresso in uno dei cinque consorzi mediorientali tramite una quota di partecipazione. Infatti l’ENI venne fondato nel 1953 e iniziò la sua internazionalizzazione dal 1956-1957 in poi. In quel periodo l’azienda di Stato italiana, se paragonata alle multinazionali, era un piccolo operatore del settore, e, come tale, non aveva i requisiti per entrare in uno dei consorzi mediorientali, né poteva pretendere di avere una quota di partecipazione, anche piccola (per approfondire ciò, si veda lo spazio finale che segue il paragrafo “conclusioni”). Di questa situazione Mattei ne era perfettamente consapevole, come dimostra il modo in cui lui e la diplomazia italiana affrontarono la Crisi di Abadan e la costituzione del consorzio iraniano nel 1953-1954.

   La Crisi di Abadan (o crisi anglo-iraniana) fu un conflitto tra il Regno Unito e l’Iran che si svolse tra il 1951 e il 1954, a seguito della nazionalizzazione da parte del governo iraniano della AIOC e delle raffinerie della città di Abadan. La produzione petrolifera dell’Iran era controllata dal Regno Unito fin dagli inizi del XX secolo, attraverso l’Anglo Persian Oil Company (che successivamente prese il nome di Anglo Iranian Oil Company), una società privata, ma controllata dal Governo inglese; quest’ultimo, infatti, acquisì il controllo della società nel 1914, allor quando ne acquistò il 51%. Per molti anni, il Regno Unito sfruttò le risorse petrolifere dell’Iran in una maniera molto discutibile e pagando royalties bassissime al governo iraniano. Sia il Governo dell’Iran e sia il popolo, erano stanchi di permettere agli inglesi di sfruttare a loro esclusivo vantaggio una risorsa naturale che apparteneva al Paese e che avrebbe dovuto essere utilizzata per migliorare le condizioni dell’Iran. Queste furono le premesse che portarono il nazionalista Mohammed Mossadeq, primo ministro iraniano, a nazionalizzare l’industria petrolifera del Paese, costituendo un ente di Stato, ovvero la National Iranian Oil Company (NIOC). Il Regno Unito rispose alla nazionalizzazione con una decisa attività diplomatica che portò in brevissimo tempo al boicottaggio mondiale del petrolio iraniano: infatti il governo inglese esercitò ogni pressione affinché nessuno acquistasse il greggio proveniente dall’Iran, e, inoltre, Londra denunciò l’Iran alla corte internazionale dell’Aja, ritenendo l’espropriazione dei beni della AIOC un atto illegittimo; bloccò i conti bancari iraniani presso le banche inglesi e addirittura riuscì a convincere anche gli Stati Uniti d’America a non acquistare il petrolio iraniano. A causa dell’embargo sul petrolio proveniente dall’Iran, in poco tempo la situazione economica del Paese giunse al collasso. Nonostante ciò, il conflitto diplomatico tra Iran e Regno Unito andò avanti ancora per alcuni anni. Il Governo inglese, allora, si convinse che l’unico modo per porre fine al contrasto era un intervento di tipo militare che destituisse Mossadeq. Il Regno Unito insieme al Governo degli Stati Uniti (amministrazione Eisenhower), organizzarono “l’operazione Ajax”, ossia il golpe che nell’agosto del 1953 in Iran portò alla destituzione di Mossadeq e fece rientrare lo scià Mohammed Reza Pahlavi (governo filo-britannico). Per quanto riguarda la questione del petrolio, si decise che da quel momento in poi gli inglesi non avrebbero più avuto l’esclusivo controllo dell’industria petrolifera del Paese. Il Governo statunitense, infatti, non si fidava della Gran Bretagna che per anni aveva sfruttato le risorse dell’Iran in una maniera molto discutibile; dunque, per evitare in futuro un’altra crisi politica nel Paese legata alla questione del petrolio, si decise che a gestire l’importante produzione iraniana sarebbe stato un consorzio formato dalla AIOC (che ora diventa British Petroleum, BP) e dalle altre multinazionali. Dunque nacque il Consorzio per l’Iran, e correva l’anno 1954 (per la Crisi di Abadan cfr. STEFANO BELTRAME, Mossadeq. L’Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della rivoluzione islamica, Catanzaro, Rubbettino, 2009; GEORG MEYR, La crisi petrolifera anglo-iraniana (1951-54). Mossadegh tra Londra e Washington, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994). E l’Italia in tutto ciò?

    La diplomazia italiana seguì con vivo interesse la Crisi di Abadan del 1951-1954. Nel momento in cui giunse la notizia che si andava costituendo il consorzio per l’Iran, che avrebbe gestito l’importante produzione petrolifera iraniana, la diplomazia italiana si attivò affinché anche l’Italia, attraverso un suo ente o gruppo industriale, entrasse a far parte con una quota di partecipazione nel consorzio per l’Iran. La diplomazia italiana sperava che il nostro Paese potesse essere ammesso, per via del fatto che, durante la crisi anglo-iraniana, l’Italia aveva rispettato l’embargo che la Gran Bretagna aveva posto sul petrolio iraniano, rifiutando di acquistare, attraverso l’AGIP, il greggio venduto dalla NIOC, considerato espropriato in maniera illegittima alla AIOC. Sia la diplomazia italiana e sia Mattei, inizialmente credettero che la fedeltà dimostrata alla Gran Bretagna durante la crisi anglo-iraniana potesse dare all’Italia una certa credibilità, e che la lealtà del nostro Paese verso il Governo inglese sarebbe stata ricompensata con l’invito a partecipare alla spartizione del petrolio iraniano. Ma l’Italia non avrebbe mai potuto far parte del consorzio essenzialmente per due motivi: perché era debole da un punto di vista politico, e, non avendo peso sulle vicende internazionali, il Paese non sarebbe quindi riuscito a esercitare eventuali pressioni, attraverso un’azione diplomatica, che avrebbero potuto sortire quest’effetto; sia perché non c’erano aziende italiane tanto importanti quanto le società petrolifere anglo-americane che avrebbero potuto far parte di un’associazione destinata a controllare l’importante produzione petrolifera iraniana. Infatti l’ENI era appena nato (10 febbraio 1953), ed era una realtà industriale ancora troppo piccola, e una sua eventuale richiesta di entrare nel consorzio sarebbe stata certamente rifiutata. Questo Mattei lo sapeva bene, come dimostra una sua lettera scritta al diplomatico Vittorio Zoppi, Segretario Generale di Palazzo Chigi; quest’ultimo aveva chiesto sia al presidente della FIAT Vittorio Valletta, sia al presidente dell’ENI, di cercare di inserire l’Italia nel consorzio attraverso uno dei due più importanti gruppi industriali italiani (cfr. ILARIA TREMOLADA, La via italiana al petrolio: l’ENI di Enrico Mattei in Iran (1951-1958), Milano, L’Ornitorinco, 2011,pp. 108-134).   

   Ora chi si trova in contatto con le compagnie americane e britanniche interessate alla questione sono l’Agip per le sue relazioni con l’Anglo-Iranian e la Fiat, per le sue relazioni con la Californian Texas. Crede lei di poter prendere contatto con il Prof. Valletta, cui scrivo nello stesso senso, per vedere se si possono inserire interessi italiani nella compagnia per la vendita dei petroli persiani? (Ivi, p. 134).

Mattei, il primo febbraio 1954, rispose in tal modo alle richieste di Zoppi:

   Il problema del nostro eventuale inserimento nella progettata compagnia per il commercio dei petroli persiani, secondo me, ha carattere essenzialmente politico. Anche se taluni governi sono ora rientrati formalmente dietro le quinte, è certo che essi, con una lunga e intensa azione diplomatica, hanno spianato la via affinché i grandi trust petroliferi – quasi ambasciatori economici dei rispettivi paesi – possano spiegare la loro potenza per perfezionare accordi che sono in massima più che maturi. Ma finora in questo giuoco noi siamo fuori. Cosicché io penso che qualsiasi domanda di inserimento di complessi italiani arriverebbe allo scoperto e sarebbe destinata a una pietosa fine. Credo pertanto che nessun ente responsabile – noi o la FIAT – potrebbe oggi esporsi alla leggera, al prevedibile insuccesso. La cosa, naturalmente, cambierebbe se l’opera della nostra diplomazia riuscisse a provocare una qualsiasi forma di invito o di incoraggiamento. Può essere certo che quel giorno noi sapremmo trovare gli agganci tecnici per accordare la tutela degli interessi italiani con il rispetto dei nostri accordi e dei riguardi personali con i gruppi petroliferi esteri (Ivi, pp. 134-135).

   La lettera che Mattei scrisse a Zoppi, pubblicata da Ilaria Tremolada nel suo studio, mette fortemente in dubbio l’episodio dello “schiaffo iraniano”, ossia il fatto che Mattei, avendo chiesto alle compagnie anglo-americane di essere ammesso al consorzio per l’Iran, al fine di tutelare gli interessi italiani per quanto concerne l’approvvigionamento delle fonti di energia, avrebbe ricevuto un umiliante rifiuto da parte delle major, che con prepotenza avrebbero escluso l’ENI dalla spartizione del petrolio iraniano. Da tale rifiuto sarebbe nata l’ostilità di Mattei verso le sette sorelle e non solo; Mattei, volendo reagire all’umiliante esclusione, decise di mettere in atto un’aggressiva politica estera volta a stabilire accordi commerciali con i Paesi produttori, proponendo ad essi formule contrattuali che garantissero condizioni migliori. Per molto tempo questa è stata la versione dei fatti tramandata dalla gran parte dei biografi che si sono occupati di studiare la vicenda di Enrico Mattei. A tramandare questa versione dei fatti (tra l’altro senza citare fonti attendibili) e ad attribuire al presunto rifiuto le ragioni della politica estera dell’ENI sono: GIUSEPPE ACCORINTI, Quando Mattei era l’impresa energetica. Io c’ero, Matelica, Halley, 2006, p. 87; LUIGI BAZZOLI, RICCARDO RENZI, Il miracolo Mattei, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 175-176; PAUL H. FRANKEL, Petrolio e potere: Enrico Mattei, Firenze, La nuova Italia, 1970, p. 96; CARLO MARIA LOMARTIRE, Mattei. Storia dell’italiano che sfidò i signori del petrolio, Milano, Le Scie Mondadori, 2004, pp. 195-197; MANLIO MAGINI, L’Italia e il petrolio tra storia e cronologia, Milano, Edizioni Mondadori, 1976, p. 130; ALBERTO MARINO, Enrico Mattei deve morire! Il sogno senza risveglio di un paese libero, Roma, Castelvecchi, 2014, p. 42; ITALO PIETRA, Mattei, la pecora nera, Milano, Sugarco, 1987, pp. 103-104; DANIEL YERGIN, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1996, p. 426. 

   È doveroso dire, però, che fu lo stesso Mattei a contribuire al consolidamento di questa versione dei fatti: egli fece circolare la voce secondo la quale l’Italia e l’ENI sarebbero state escluse in malo modo dal consorzio per l’Iran. È interessante, nonché importante, comprendere per quale ragione Mattei abbia accreditato una versione dei fatti che probabilmente non era vera. Delle spiegazioni convincenti a questo interrogativo vengono offerte da Dow Votaw e da Ilaria Tremolada. Votaw, nel suo studio, offre questa spiegazione:

   Se davvero non avanzò mai una richiesta del genere perché disse di averlo fatto? Un motivo si può cercare nella necessità di spiegare perché spendesse grosse somme di denaro italiano fuori d’Italia e corresse grossi rischi nella ricerca di petrolio quando avrebbe potuto stipulare qualche accordo con le grandi società internazionali e assicurarsi così forniture sufficienti (DOW VOTAW. Il cane a sei zampe – Enrico Mattei e l’Eni – saggio sul potere, Milano, Feltrinelli, 1965, pp. 33-34).

   La spiegazione di Votaw sembra convincente per il fatto che è plausibile che Mattei usasse la scusa dell’esclusione dal consorzio per giustificare, di fronte alla politica e di fronte all’opinione pubblica, le costose attività dell’ENI all’estero: non essendo permesso all’azienda italiana di avere accesso ai consorzi mediorientali, allora questa è stata costretta a stipulare accordi diretti con i governi dei Paesi produttori per ottenere delle concessioni di ricerca.

Ilaria Tremolada, invece, propone questa interessante spiegazione:

   Mattei, peraltro, in qualche occasione disse che le compagnie anglo-americane non vollero accogliere l’ente da lui diretto tra le società fondatrici del consorzio, ma in mancanza di documenti che lo provino si può anche pensare che Mattei abbia fatto un uso strumentale della vicenda per caricare emotivamente lo scontro realmente avuto, in seguito alle sue scelte di politica estera, con le major anglo-americane (ILARIA TREMOLADA. op. cit., pp. 136-137).

   L’osservazione di Ilaria Tremolada è, a mio parere, assolutamente condivisibile. Il fatto che Mattei abbia voluto dare una carica emotiva allo scontro con le multinazionali del petrolio trova riscontro nella realtà, e la parabola del gattino ne è la dimostrazione. L’aneddoto raccontato dal presidente dell’ENI in televisione, dove le multinazionali sono paragonate a grossi cani cattivi e affamati e dove l’azienda italiana è paragonata ad un gattino debole e affamato che viene scacciato via con arroganza, serviva sia a far comprendere al pubblico, come già detto, le difficoltà incontrate dall’ENI nel ritagliarsi un suo spazio in Medio Oriente, e sia per dare all’ENI una particolare immagine: cioè quella di una vittima dell’arroganza dei potenti che però non si lascia abbattere e, reagendo con forza, dignità e coraggio, riesce a rialzarsi e a conquistare le sue vittorie. Non a caso Mattei, durante tutto l’episodio di Tribuna politica, dopo aver raccontato l’aneddoto, elencò al pubblico che ascoltava tutti i successi ottenuti dall’ENI, compreso l’accordo concluso con l’Iran nel 1957, uno dei maggiori successi politici del presidente dell’ENI (cfr. ENRICO MATTEI. op. cit., pp.770-780; cfr. anche alcuni estratti dell’episodio in questione di Tribuna politica visionabili sul canale YouTube “enivideochannel”).   

Il meeting di Montecarlo

   Il confronto tra l’ENI e le compagnie anglo-americane del petrolio, viene costantemente presentato dal presidente Mattei all’opinione pubblica italiana come una battaglia tra un piccolo David e un grande Golia attraverso il racconto non solo – come si è visto – della parabola del gattino, ma anche mediante la narrazione di incontri avuti con i rappresentanti delle major. È il caso del meeting che Mattei ebbe con Arnold Hofland, rappresentante della Royal Dutch Shell, a Montecarlo l’otto dicembre 1959. Il presidente dell’ENI, raccontò in questi termini l’incontro di lavoro:

   […] Io alla fine del 1959 fui invitato ad incontrarmi con uno dei sette grandi, uno dei più grandi, con un bilancio che è quasi pari al bilancio dello Stato italiano […] per vedere di stabilire dei rapporti di collaborazione. Erano i primi di dicembre del 1959 ed io andai a Montecarlo, che era il luogo dell’incontro, ed incominciammo a parlare. Avevo con me un giovane ingegnere, un mio collaboratore. Tutta la collaborazione offerta da questo illustre capo riguardava l’Italia: tenere più su i prezzi, guadagniamo tutti di più. Proprio il contrario di quello che devo fare io che sono l’esponente dell’Azienda dello Stato. Io debbo cercare di dare al consumatore tutto quello che è possibile. Io gli dissi: Ma io credo che in Italia abbiate finito di fare una politica vostra, che da adesso in avanti la faremo noi e cioè è finito di fare il periodo in cui l’Italia faceva la parte del gattino, di cui vi ho parlato all’inizio. […] Piuttosto vediamo un po’ la Svizzera, la Germania: noi stiamo costruendo un oleodotto, una grande raffineria per l’approvvigionamento dei mercati dell’Europa centrale che dovrà fare di Genova il più grande emporio europeo del petrolio. Noi trasporteremo quantitativi di petrolio nella Valle Padana, in Svizzera, in Germania. Avete interesse che vi trasportiamo del petrolio? Voi non avete raffinerie lì, non avete niente.

   Mi rispose: Noi non avevamo nessuna intenzione, ma dato che voi fate questo oleodotto ne faremo uno anche noi. Attualmente è in progetto un oleodotto che da Marsiglia va fino a Karlsruhe, ma gli faremo fare un grande arco per farlo arrivare in Baviera. Io gli dissi: Ho l’impressione che seguitiate a fare degli oleodotti non economici, perché la linea di comunicazione per la Germania, da quando mondo è mondo, è sempre passata dall’Italia e dalla Svizzera. Ne avete già fatti due di questi oleodotti che vengono uno da Wilhelmshaven giù fino a Colonia e l’altro da Rotterdam, pure verso sud. Con gli stessi soldi con cui voi portate il petrolio con le navi nel Mare del Nord, noi possiamo portarlo attraverso l’Italia fino al centro della Germania. Cioè voi avete in più il costo degli oleodotti che avete costruiti. Adesso partite da Marsiglia e fate l’arco: ho l’impressione che sia un po’ politico anche questo perché, come dicevo prima, la via economica è la nostra.

   Mi rispose: Noi cammineremo da soli. Poi mi disse: che cosa volete fare in Tunisia? In Tunisia, risposi, noi vogliamo costruire una raffineria. E lui mi disse: voi non farete la raffineria perché la faremo noi, noi con una delle altre grandi società del cartello, un’altra delle Sette Sorelle. Ed io molto umilmente gli chiesi: che cosa ne penserebbe se invece di farla in due la facessimo in tre? Disse: No. Allora io tirai fuori dalla tasca la matita, avevo altri argomenti da discutere, lo guardai, li cancellai e gli dissi: Ho l’impressione che non abbiamo più niente da dirci, però lei il colloquio di oggi se lo ricorderà per tutta la vita. […] A questo punto ci lasciamo e al giovane ingegnere che mi accompagnava io dissi: Se lo ricordi, ha visto che egoismo terribile, se lo ricordi per tutta la vita. In quel momento cominciò per la Tunisia, come era già successo in Marocco, nel Ghana, nel Sudan, una lotta terribile, senza esclusioni di colpi. Dall’altra parte ho visto insieme società inglesi, olandesi, belghe, tutte unite contro di noi (ENRICO MATTEI, op. cit., pp. 776-777).

L’incontro con Hofland viene descritto da Mattei con toni molto polemici e, soprattutto, accesi. Anche in questo caso viene evocata l’immagine del piccolo David (l’ENI) che deve combattere contro il gigante Golia (le sette compagnie o una di esse): il rappresentante della Shell – stando alla versione dei fatti tramandata dal presidente dell’ENI – cerca di imporsi in modo arrogante su Mattei, pretendendo che egli aumenti i prezzi di vendita della benzina per evitare una concorrenza sleale sul mercato italiano nei confronti delle altre società, ma il presidente dell’azienda di Stato italiana, reagendo con orgoglio e con uno spirito combattivo, e ergendosi a difensore degli interessi del popolo italiano, risponde che la politica dei prezzi in Italia la stabilisce l’ENI nell’esclusivo interesse dei consumatori; in seguito, lo scontro tra i due si acuisce sulla Tunisia: Hofland chiede a Mattei cosa intende fare in questo Paese, e, il presidente dell’ENI, risponde che ha l’intenzione di costruire una raffineria in collaborazione con il Governo tunisino. Il rappresentante della Shell, con prepotenza risponde che l’azienda italiana non costruirà la raffineria, perché questa verrà realizzata dalla Shell insieme ad un’altra compagnia appartenente al cartello. Mattei, inizialmente chiede rispettosamente se l’ENI può partecipare come terzo partner alla costruzione della raffineria, ma, nonostante ciò, Hofland nega all’ENI in maniera brutale la possibilità di partecipare all’affare. A questo punto del racconto Mattei e l’azienda da lui presieduta sembrano essere il gattino della parabola, che viene escluso dal banchetto dai famelici cani da caccia. Il presidente dell’ENI reagisce lasciando l’incontro, cancellando energicamente con la penna tutti gli altri punti da discutere, e per avere l’ultima parola, dice a Hofland che il colloquio avuto glielo farà ricordare per tutta la vita.

   Questo episodio – così come raccontato da Mattei – ha contribuito in larga misura a costruire prima e a consolidare poi il “mito Mattei”, ossia l’uomo che sfida con coraggio gli intoccabili interessi delle multinazionali del petrolio, in quanto l’incontro di Montecarlo del dicembre 1959, nella versione tramandata dal presidente dell’ENI, è stato puntualmente ripreso dalle diverse biografie romanzate di Mattei, e, in particolar modo, è stato riproposto con maggiore enfasi da Francesco Rosi nel celebre film Il caso Mattei (1972). Nell’opera cinematografica, il clima di scontro tra l’ENI e il rappresentante della Shell Hofland (interpretato dall’attore Blaise Morrissey e che Rosi identifica erroneamente come un petroliere americano) viene reso in maniera ancora più efficace di quanto Mattei faccia in realtà nella sua intervista, grazie soprattutto alla bravura di Gian Maria Volonté che, con la sua recitazione, enfatizza il carattere deciso del manager italiano.

   Ma l’incontro che il presidente dell’ENI ebbe con Hofland a Montecarlo, si svolse davvero così come Mattei lo ha tramandato? Stando a diverse (e più attendibili) fonti, è possibile ricostruire in modo diverso, e in modo più veritiero, l’episodio. 

   L’incontro ebbe luogo la mattina dell’otto dicembre 1959 presso L’Hotel de Paris. Mattei giunse la sera prima, accompagnato da Nicola Melodia, vice direttore generale dell’AGIP e suo stretto collaboratore; dunque il giovane ingegnere che viene citato dal presidente dell’ENI durante l’intervista. Arnold Hofland, uno degli amministratori delegati della Shell, era accompagnato dall’ingegner Diego Guicciardi, presidente della Shell italiana. Melodia e Guicciardi ebbero un ruolo di primo piano nell’organizzare l’incontro tra Mattei e Hofland, ed è grazie alle loro testimonianze che è possibile ricostruire in maniera più accurata l’episodio. Anzitutto, è necessario comprendere il contesto nel quale venne organizzato l’incontro tra il presidente dell’ENI e il rappresentante della Shell (Cfr., AA.VV., Mattei 50 anni dopo (1962-2012). Articoli e materiale d’archivio della Rivista Italiana del Petrolio e della Staffetta quotidiana sulla figura e l’opera del presidente dell’ENI scomparso il 27 ottobre 1962, Roma, Rivista Italiana del Petrolio editrice, 2012, pp. 47-48). 

   La British Petroleum (BP) e la ESSO in Italia avevano dei rapporti commerciali con l’AGIP, e, quindi, con l’ENI. Con la BP tali rapporti concernevano la raffineria IROM di Porto Marghera, la società Rifaer per i rifornimenti aeroportuali e la vendita dei lubrificanti Energol; la BP aveva, poi, l’esclusiva per il rifornimento del greggio alla IROM. Per quanto riguarda la ESSO, questa società aveva una partecipazione alla pari con l’ENI nella STANIC, proprietaria delle raffinerie di Livorno e di Bari; ambedue le raffinerie erano obbligate a rifornirsi dalla ESSO e di distribuire i prodotti petroliferi mediante la rete della ESSO Standard italiana (cfr. ivi, p. 49).

   Quando nel 1957 Diego Guicciardi assunse la direzione della Shell italiana, i rapporti fra questa società e l’ENI non erano buoni e ciò poteva costituire un problema per la questione della raffineria INPET di La Spezia: questa era in concessione alla Shell e i termini della concessione stavano per scadere. Avere il controllo della raffineria sarebbe stato un ottimo affare per l’AGIP, mentre la Shell non poteva permettersi di perdere il controllo dell’impianto. In questo senso, Guicciardi, in qualità di rappresentante della Shell italiana, avviò dei rapporti cordiali con Mattei e con l’azienda di Stato italiana, e convinse i vertici Shell a stabilire buoni rapporti con l’ENI; Mattei, poi, non si intromise nel rinnovo della concessione della raffineria INPET alla società anglo-olandese (ibidem).

   In seguito a questi fatti, si pensò che l’ENI e la Shell potessero instaurare delle collaborazioni commerciali.

   Le basi per delle potenziali collaborazioni fra ENI e Shell, vennero gettate intorno al 1958, quando Mattei e Melodia ebbero degli incontri a Londra e a l’Aja con i vertici della società anglo-olandese. Nel corso di questi incontri, emerse la possibilità di giungere ad accordi di collaborazione per quanto riguardava l’Italia e l’Africa. Nel continente africano, Mattei aveva intenzione di realizzare delle iniziative e, inizialmente, venne presa in considerazione l’idea di far collaborare l’ENI e la Shell in questa area; giunse in Italia Tom Greaves, a quel tempo responsabile Shell per l’Africa, e studiò con Melodia i possibili affari sui quali si potesse effettivamente collaborare. Dopodiché, si decise di far incontrare i rispettivi capi, e, così, si arrivò all’incontro fra Mattei e Hofland a Montecarlo l’otto dicembre del 1959 (ibidem). 

   Il meeting fra i due capi iniziò con Mattei che ci tenne a sottolineare i buoni rapporti che c’erano in Italia tra l’ENI e la Shell, lamentando il fatto che mancavano delle collaborazioni di rilievo con la compagnia anglo-olandese. L’incontro giunse ad un fallimento sulla Tunisia. Come si è visto, Mattei raccontò di essere stato escluso con prepotenza dalla possibilità di realizzare la raffineria in Tunisia, anche in partnership con le altre major. Secondo la versione di Hofland, la rottura sulla Tunisia non avvenne perché egli negò la possibilità all’ENI di partecipare, ma avrebbe detto, semplicemente, a Mattei di non essere nella posizione di discutere sulla costruzione della raffineria, in quanto l’affare era nelle mani dei vertici della ESSO, la società incaricata di trattare con il governo di Tunisi per conto della Shell, e, perciò, non dipendeva direttamente da lui (cfr., ivi, pp. 49-50). È utile, nonché importante, riportare le parole dello stesso Hofland sull’incontro di Montecarlo:

   Mattei […] iniziò l’incontro sottolineando i buoni rapporti esistenti in Italia e lamentando di non avere partecipazioni comuni con la Shell. Io spiegai a Mattei che secondo la mia opinione un accordo o una partecipazione può essere una buona cosa solo se è vantaggiosa per entrambi i partners e se essi hanno un identico approccio. I temi sollevati da Mattei per una possibile cooperazione avrebbero tutti dato luogo ad un affare unilaterale. Mattei elencò una serie di paesi dove desiderava iniziare a lavorare. Io dissi che era libero di farlo e che noi avremmo fronteggiato la sua concorrenza senza animosità (ivi, p. 50).

E, in particolare, ebbe a dire sulla questione della raffineria in Tunisia:

   Ciò che dissi a Mattei era che mi sorprendeva il suo interesse per la Tunisia dove abbiamo una quota di minoranza nella Creps e nella Trapsa. Il governo tunisino ha il diritto di attingere petrolio dall’oleodotto per il suo fabbisogno ad un certo prezzo scontato, pagabile in dinari. Mattei allora mi rivelò che stava pensando a sbocchi per i prodotti manifatturati e per il lavoro italiani e perciò era interessato a costruire una raffineria. A questo io replicai che eravamo sempre preparati a considerare i prezzi di Mattei in termini competitivi. Mattei allora domandò: “perché non la facciamo insieme?” domanda a cui risposi che non dipendeva da me perché la Esso stava già trattando con il governo tunisino […] (ivi, p. 51). 

   La versione dei fatti data da Hofland, e le testimonianze di Melodia e Guicciardi, dimostrano come il clima nel quale si svolse l’incontro a Montecarlo era molto diverso da quello che emerge nella versione data da Mattei, ripresa puntualmente dalle ricostruzioni biografiche e cinematografiche.   

Conclusioni

   La parabola del gattino – dando per buona l’ipotesi che la storiella si riferisse alla Crisi di Abadan – e il racconto sull’incontro avuto con Arnold Hofland a Montecarlo, dimostrano come le accuse di Mattei rivolte alle major di voler escludere l’azienda italiana dalla spartizione del petrolio, o, comunque, di escluderla con prepotenza da importanti iniziative, erano certamente esagerate: nel caso del mancato ingresso dell’ENI nel consorzio iraniano, si è visto come lo stesso Mattei era consapevole che l’azienda da lui presieduta aveva scarsissime speranze di entrarvi con una quota di partecipazione, e in assenza di documenti che possano dimostrare che il presidente dell’ENI abbia realmente inoltrato una richiesta ufficiale per inserire l’ente di Stato nel consorzio iraniano, è possibile ritenere che una richiesta in tal senso da parte sua non ci fu mai, e, di conseguenza, la presunta umiliante esclusione non ci fu mai; nel caso del meeting di Montecarlo, sulla base di altre testimonianze, si è potuto constatare che la possibilità per l’ENI di realizzare una raffineria in Tunisia – anche in partnership –  non è stata negata per mera cattiveria del rappresentante della Shell. Sulle ragioni del perché Enrico Mattei esasperasse in maniera eccessiva la polemica contro le sette multinazionali anglo-americane, si possono offrire delle interessanti spiegazioni.

   È probabile che Mattei abbia voluto inasprire i toni della polemica per suscitare la simpatia dell’opinione pubblica nei suoi confronti. Infatti, l’immagine dell’ENI di vittima dell’arroganza dei potenti, di combattente che sfida intoccabili interessi mettendosi contro i potenti del petrolio – immagine abilmente veicolata dalla parabola del gattino e dai successivi discorsi pronunciati dal presidente durante l’episodio di Tribuna politica – serviva a svegliare l’orgoglio nazionale dell’opinione pubblica, affinché questa potesse apprezzare l’ENI e il suo operato. Dunque, la polemica di Mattei contro le multinazionali anglo-americane sembra essere più un’accorta strategia di diffusione dell’immagine aziendale, caratterizzata da particolari toni del tipo “molti nemici molto onore”: l’ENI si presentava al pubblico italiano in veste di un combattente che aveva conquistato il suo spazio in Medio Oriente lottando contro dei nemici potenti (cfr. DANIELE POZZI, Molti nemici molto onore? Le strategie di comunicazione dell’ENI di Enrico Mattei, reperibile su http://www.researchgate.net).        

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    L’ENI iniziò la sua espansione all’estero dal 1956-1957 in poi. L’azienda italiana non avendo i requisiti per accedere ad uno dei cinque consorzi mediorientali, doveva cercare altre vie per potersi ritagliare un suo spazio nel Medio Oriente. Un modo per realizzare questa ambizione lo si poteva cercare nell’andare incontro alle richieste dei Paesi produttori di lingua araba, che dagli anni Cinquanta in poi cercarono di ottenere profitti sempre più alti dalle concessioni di ricerca cedute alle multinazionali del petrolio. A questo proposito, Ilaria Tremolada scrive:

   Per coordinare la propria politica petrolifera, nonché per curare i rapporti tra essi e le compagnie straniere, i paesi produttori di lingua araba crearono il Permanent Petroleum Bureau, un organismo sovranazionale sorto nel 1956 – ma progettato qualche anno prima – per ispirazione del Segretariato Generale della Lega Araba. Il nuovo ufficio analizzò i contratti che legavano i paesi membri e le major del petrolio considerando che più equo sarebbe stato se il paese produttore avesse percepito il 75% del profitto anziché il 50%. Questo fu il principio su cui lavorarono alcune cancellerie mediorientali perfezionando una nuova formula contrattuale che, inoltre, ambiva a far ottenere ai paesi produttori un’attiva partecipazione alla ricerca, obiettivo che si proponevano di raggiungere con la formazione di società a capitale misto che avrebbero estratto e lavorato il greggio ripartendo oneri, guadagni e responsabilità. Il primo paese a proporre, alle compagnie straniere operanti già sul suolo nazionale, tale formula di collaborazione fu l’Egitto, da anni impegnato in una profonda ristrutturazione di quel settore (ILARIA TREMOLADA, Nel mare che ci unisce. Il petrolio nelle relazioni tra Italia e Libia, Milano, Mimesis, 2015, pp. 86-87).

   Successivamente fu l’Iran a proporre questa particolare ripartizione degli utili ad una compagnia occidentale.

    L’otto luglio 1956, giunse a Mattei una proposta della National Iranian Oil Company (NIOC), l’ente di Stato iraniano che nel Paese gestiva le aree non controllate o comunque non sfruttate dal consorzio per l’Iran. Il Governo iraniano, attraverso il suo ente di Stato, voleva provare a concludere accordi con partner diversi dalle società del cartello, che fossero disposti a concedere una ripartizione degli utili a vantaggio del Paese produttore. Dunque, la NIOC propose all’ENI di ottenere delle concessioni di ricerca nelle aree non impegnate dalle multinazionali anglo-americane che controllavano il consorzio iraniano, a patto che l’ente italiano accettasse di concedere al Paese produttore il 75% dei profitti e, in più, di costituire una società mista detenuta a parità di condizioni (50 e 50) dall’ENI e dalla NIOC. Mattei accettò la proposta, consapevole che la conclusione di un’intesa con il governo dell’Iran avrebbe permesso all’ente di Stato italiano di fare il suo ingresso in un’area del mondo ricca di petrolio, ovvero il Medio Oriente. Tra il marzo e l’agosto del 1957 venne concluso l’accordo ENI-NIOC: il contratto prevedeva la creazione di una joint company (società mista) denominata Société Irano-Italienne des Pétroles (SIRIP), detenuta pariteticamente al 50% dall’ENI e dalla NIOC. La SIRIP avrebbe ceduto il 50% dei profitti in royalties allo Stato iraniano, e il restante 50% veniva diviso in maniera paritetica tra ENI e NIOC. Poiché la NIOC è un’azienda che appartiene allo Stato iraniano, la percentuale di utili percepita dal governo saliva al 75% (cfr. ILARIA TREMOLADA, La via italiana al petrolio, op. cit., pp. 189-281). Successivamente l’ENI utilizzò la formula 75/25 ideata dai Paesi produttori per concludere accordi commerciali con l’Egitto (1957, cfr. MARCO VALERO SOLIA, Mattei, Obiettivo Egitto. L’ENI, Il Cairo, Le Sette Sorelle, Roma, Armando Editore, 2016; ALBERTO TONINI, Il sogno proibito: Mattei, il petrolio arabo e le sette sorelle, Firenze, Polistampa, 2003, pp. 57-100), il Marocco (1958, cfr. BRUNA BAGNATO, Petrolio e politica. Mattei in Marocco, Firenze, Polistampa, 2004, p. 152) e la Tunisia (1960, cfr. MARCO VALERO SOLIA, op. cit., p. 126; DANIELE POZZI, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe: tecnologia, conoscenza e organizzazione nell’AGIP e nell’ENI di Enrico Mattei, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 433-434).

   Dopo quanto detto, e dopo quanto analizzato nella prima parte di questo saggio, si deve ritenere che le ragioni della politica estera dell’ENI non risiedevano in una reazione vendicativa del presidente Mattei scatenata da una presunta esclusione dell’ente italiano dal consorzio di Abadan. A spingere Mattei a sfidare le società del cartello era la semplice volontà di far guadagnare all’ENI i suoi spazi nel Medio Oriente. L’unico modo per realizzare questa ambizione era quello di offrire una ripartizione degli utili a vantaggio del Paese produttore; cioè – detto in termini più semplici – cercare di ottenere dai Governi concessioni di ricerca offrendo ad essi di più di quanto veniva concesso loro dalle major. Ed è quello che fece Mattei con l’Iran nel 1957: accettò di concedere al Paese non il 50% ma il 75% degli utili. La strategia adottata dall’ente italiano per fare il suo ingresso nel mercato mediorientale sembra essere quella praticata dai cosiddetti newcomer, ossia i nuovi arrivati. I nuovi arrivati, nell’industria del petrolio, erano le compagnie più piccole che non facevano parte del club delle sette grandi. Per queste compagnie, l’unico modo per entrare in Medio Oriente era di “giocare al rialzo”, cioè offrire (o essere disposti ad offrire) di più. Gli affari conclusi da queste aziende con i governi mediorientali spesso creavano problemi alle società anglo-americane: la conclusione di accordi con nuovi sistemi di ripartizione degli utili potevano creare pericolosi precedenti, e, di conseguenza, gli altri Governi dell’area potevano sentirsi incoraggiati a rivedere i propri accordi con i consorzi controllati dalle multinazionali anglo-americane (cfr. ANTHONY SAMPSON, op. cit., pp. 192-212; DANIEL YERGIN, op. cit., pp. 422-430). Quando Mattei nel 1957 concluse l’accordo ENI-NIOC, in Medio Oriente la politica del fifty-fifty si era già consolidata da diversi anni; ora, il contratto concluso tra l’ente italiano e il Governo dell’Iran inaugurava una nuova ripartizione degli utili, cioè il 75% al Paese produttore e il 25% alla compagnia petrolifera. Sia le compagnie del cartello e sia le amministrazioni governative dei Paesi che esse rappresentavano (Stati Uniti e Gran Bretagna), temettero fortemente che il contratto ENI-NIOC potesse rappresentare un pericoloso precedente, e che gli altri Paesi dell’area potevano essere incoraggiati a chiedere alle major di rivedere gli accordi basati sul principio del 50 e 50 (a questo proposito cfr. LEONARDO MAUGERI, L’arma del petrolio: questione petrolifera globale, guerra fredda e politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Firenze, Loggia De’ Lanzi, 1994, pp. 154-157) . Dunque, Mattei riuscì a fare il suo ingresso nel Medio Oriente con una formula contrattuale che era di rottura rispetto a quella consuetudinariamente utilizzata.

   Va detto che quanto fatto da Mattei in Medio Oriente non rappresentava nulla di nuovo. Infatti, tra il 1948 e il 1949 (quindi circa otto anni prima di Mattei), Jean Paul Getty, il petroliere americano fondatore della Getty Oil Company, aveva sfidato le compagnie del cartello nello stesso identico modo. Getty riuscì ad ottenere una concessione nella Zona Neutra dell’Arabia Saudita offrendo al governo saudita il 50 e 50, una ripartizione degli utili che fino a quel momento era stata introdotta nel mercato petrolifero venezuelano e mai utilizzata in Medio Oriente. Paul Getty creò un pericoloso precedente in Medio Oriente con il suo affare: i governi di quell’area geografica si resero conto le sette compagnie anglo-americane (“le sette sorelle”) avevano pagato troppo poco per il loro petrolio, e iniziarono quindi a pretendere l’introduzione del principio del 50 e 50.  L’Arabia Saudita, nel 1950, fu tra i primi Paesi a richiedere alle multinazionali del cartello di rivedere gli accordi e di adottare la formula contrattuale del 50 e 50; dopo l’accordo concluso tra ARAMCO e il governo saudita nel dicembre 1950, fu la volta del Kuwait, dopo che il Governo di questo Paese pretese la revisione dei suoi accordi con la GULF OIL; in Iraq il sistema fifty-fifty venne introdotto nel 1952 (cfr. DANIEL YERGIN, op. cit., pp. 380-383; per la vicenda imprenditoriale di Jean Paul Getty cfr. JEAN PAUL GETTY, Secondo me. La mia vita, il mio denaro, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1977).

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