Introduzione
Enrico Mattei[1] e Jean Paul Getty[2] sono due grandi nomi della storia dell’industria petrolifera: il primo è stato il fondatore e primo presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), una holding company pubblica che raggruppava tutte le aziende attive nel settore degli idrocarburi create in precedenza dal regime fascista, ovvero l’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP), la Società Nazionale Metanodotti (SNAM) e l’Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili (ANIC);[3] il secondo è stato il fondatore della Getty Oil Company, una compagnia petrolifera statunitense.
Mattei e Paul Getty hanno in comune le modalità con le quali i due capitani di industria riuscirono a far guadagnare alle loro compagnie il loro spazio nel mercato petrolifero, e, in particolare, nel Medio Oriente. In questa area del mondo, l’industria del petrolio era controllata dalle sette più grandi società, cinque di esse sono americane, una britannica e un’altra è anglo-olandese. È utile ricordare i loro nomi: Standard Oil of New Jersey, conosciuta come Esso (americana); Standard Oil of New York, conosciuta come Mobil (americana); Texas Oil Company, conosciuta come Texaco (americana); Standard Oil of California, conosciuta come Chevron (americana); Gulf Oil (americana); Anglo Persian Oil Company, conosciuta come British Petroleum (inglese); Royal Dutch Shell, conosciuta come Shell (anglo-olandese). Queste sette compagnie detenevano la produzione di greggio mediorientale attraverso il controllo dei cinque grandi consorzi petroliferi che operavano nel Medio Oriente: Iraq Petroleum Company in Iraq (IPC); Arabian American Oil Company in Arabia Saudita (ARAMCO); Consorzio per l’Iran in Iran; Bahrain Petroleum Company in Bahrain; Kuwait Oil Company in Kuwait.[4] Ciascuna delle sette major aveva una quota di partecipazione in ognuna delle cinque società-consorzio; ad essere esclusi dalla possibilità di avere una percentuale di partecipazione nei cinque consorzi, e, di conseguenza, ad essere esclusi dalla possibilità di ottenere delle concessioni di ricerca in Medio Oriente per vie dirette, erano i piccoli operatori, quale era l’ENI di Mattei, e gli indipendenti[5] come Paul Getty. Nonostante ciò, Mattei e Paul Getty sfidarono il cartello delle sette sorelle, e riuscirono a far conquistare alle loro compagnie i propri spazi nel Medio Oriente.
Paul Getty entra in Medio Oriente
Paul Getty fu il primo individuo singolo a sfidare lo strapotere del cartello delle sette sorelle in Medio Oriente, dando così avvio alla rottura del loro monopolio. Il petroliere americano dopo la Seconda guerra mondiale, tra il 1948 e il 1949, ottenne una concessione in Arabia Saudita, nella cosiddetta Zona Neutra.
La Zona Neutra era «un settore di circa seimila chilometri quadrati di deserto stabilita nel 1922 dai britannici al momento di tracciare il confine fra Arabia Saudita e Kuwait. Per facilitare il transito dei beduini, che avevano un concetto nebuloso della nazionalità, fu convenuto che i due Paesi avrebbero condiviso la sovranità su quel territorio».[6] Il governo dell’Arabia Saudita e del Kuwait inoltre avevano stabilito, mediante un trattato, di unificare la proprietà dei diritti minerari su quel territorio.
Il governo del Kuwait nel 1947 decise di mettere all’asta i propri diritti minerari nella Zona Neutra; questi vennero acquisiti dalla American Indipendent Oil Company (AMINOIL), una società-consorzio formata da tre compagnie indipendenti, e cioè la Phillips, la Ashland e la Sinclair. Tutto ciò comportava che la metà dei diritti sulla proprietà mineraria che apparteneva al governo dell’Arabia Saudita fossero liberi e disponibili. A ottenerli fu il petroliere americano Getty.
Paul Getty, deciso anche lui, come altri operatori indipendenti, ad entrare nel ricchissimo territorio mediorientale, si adoperò fin da subito per ottenere la concessione dei diritti di sfruttamento dei giacimenti di gas naturale e di petrolio su tutta la metà della Zona Neutra appartenente all’Arabia Saudita. Al fine di raggiungere tale obiettivo, Getty inviò un suo valente geologo, Paul Walton, a fare un sopralluogo. Walton, dopo che ebbe effettuato una ricognizione del territorio, comunicò subito a Getty che l’area era molto promettente e che sicuramente si sarebbe trovato del petrolio in quel sottosuolo. Il giudizio di Walton fu più che sufficiente per Getty, tanto che nell’immediato il petroliere decise di intavolare le trattative con il governo dell’Arabia Saudita. Il 20 febbraio 1949, dopo rapide trattative, la Pacific Western (in seguito venne rinominata Getty Oil) ottenne la concessione petrolifera nella Zona Neutra.[7] Paul Getty, nella sua autobiografia, descrive con precisione i termini dell’accordo concluso:
L’accordo prevedeva che la Pacific Western Oil avrebbe pagato al governo saudita una immediata provvigione in contanti di dieci milioni e cinquecentomila dollari. Talune clausole supplementari precisavano che la Pacific Western si sarebbe impegnata, tra le altre cose:
…A versare un milione di dollari all’anno in più dei previsti cinquantacinque centesimi di utile per barile sull’intera produzione del petrolio.
…A versare il venticinque per cento netto sugli utili al governo dell’Arabia Saudita.
…A costruire una raffineria capace di lavorare dodicimila barili al giorno e serbatoi nei quali immagazzinare centocinquantamila barili di petrolio raffinato nell’Arabia Saudita.
…A consegnare circa quattrocentomila litri di benzina e duecentomila di kerosene ogni anno al governo dell’Arabia Saudita.
…A pagare gli stipendi agli ispettori del governo saudita e agli altri dipendenti (quali agenti di polizia, funzionari delle dogane e personale addetto alle quarantene che avrebbero avuto mansioni da svolgere presso la società).
…A provvedere alla pensione, all’assicurazione e alle altre previdenze sociali a favore dei dipendenti arabi della società (i quali avrebbero ricevuto inoltre cure mediche e ricoveri in ospedale del tutto gratuiti).
…A incaricarsi dell’educazione scolastica e professionale e a provvedere ad altre opere di assistenza per i figli dei dipendenti arabi.
…A edificare e a occuparsi della manutenzione dei fabbricati adibiti a uffici e abitazioni per il personale, all’installazione di telefoni, di un ufficio per le poste e il telegrafo, di una moschea, di strade e di un adeguato impianto di rifornimento per l’acqua.[8]
La concessione petrolifera ottenuta da Getty nella Zona Neutra fece la fortuna del petroliere americano: il giacimento di petrolio si rivelò essere ricchissimo.
L’accordo concluso da Getty con il governo saudita ebbe importanti ripercussioni nel mercato petrolifero mediorientale. Le generose condizioni offerte dal tycoon,[9]dimostrarono al governo dell’Arabia Saudita che le compagnie petrolifere statunitensi potevano pagare molto di più per ottenere le concessioni di sfruttamento del petrolio, e, di conseguenza, avevano dimostrato come le compagnie del cartello avevano pagato, fino a quel momento, troppo poco per sfruttare una risorsa naturale che apparteneva al loro Paese.Daniel Yergin, a questo proposito, scrive:
[…] La reazione generale all’offerta della Pacific Western fu di sbalordimento […]. I 55 cent al barile di royalty ai sauditi incombevano sui 35 che pagava l’AMINOIL al Kuwait, i circa 33 cent che l’ARAMCO era appena stata costretta a corrispondere ai sauditi, per non parlare dei 16 cent e mezzo che Anglo Iranian e Iraq Petroleum Company versavano ai rispettivi Paesi concessionari e dei 15 cent che pagava la Kuwait Oil Company.[10]
Vista una simile situazione, il governo saudita iniziò a pretendere dall’ARAMCO una quota più alta da destinare allo Stato. Inoltre, ad incoraggiare l’Arabia Saudita a rivendicare condizioni migliori, fu il fatto che in tutto il Medio Oriente si andava diffondendo il principio del “fifty-fifty”, uno schema di accordo che era stato adottato nel mercato petrolifero venezuelano negli anni Quaranta.
In Venezuela, dopo che ebbe fine la dittatura del Generale Gómez con la morte di quest’ultimo (17 dicembre 1935), i governi che si sono succeduti vollero rivedere i rapporti tra lo Stato e le compagnie petrolifere, in particolare con le major, al fine di ottenere introiti maggiori dall’industria petrolifera. Nel 1945, Juan Pablo Pérez Alfonzo, ministro dello sviluppo del nuovo governo Venezuelano, propose alle multinazionali il principio del “fifty-fifty”. Questo schema di accordo prevedeva la suddivisione a metà degli utili tra compagnia petrolifera e il Paese che dava in concessione lo sfruttamento delle proprie riserve petrolifere. Il Paese produttore, con tale accordo, era posto nella condizione di essere il mero titolare dei diritti di estrazione che dovevano essere concessi alle compagnie petrolifere, e non veniva a partecipare in nessun modo alle attività legate all’industria petrolifera. Dunque il Paese produttore rivestiva un ruolo di partner passivo, in quanto si limitava a dare in concessione i propri pozzi e percepire il 50 % dei profitti. Le major accettarono le rivendicazioni del governo venezuelano e il principio del 50 e 50, ritenendo che fosse più opportuno giungere a stabilire nuovi accordi invece di rischiare una minaccia di una nazionalizzazione dell’industria petrolifera da parte del governo.[11]
Nel Medio Oriente il principio del “fifty-fifty” venne diffuso da una delegazione venezuelana che si era recata di proposito in quell’area del mondo, appunto per far notare agli arabi i vantaggi che potevano portare ai loro introiti derivanti dall’industria del petrolio se avessero richiesto alle major di adottare la formula contrattuale del 50 e 50. Tutto questo, ovviamente, non lo fecero per altruismo: «era divenuto evidente che la concorrenza della produzione a basso costo e grandi quantitativi del Medio Oriente costituiva una grande minaccia per il Venezuela. Meglio quindi che quei prezzi aumentassero, obiettivo raggiungibile se i Paesi del Golfo avessero elevato le loro percentuali. Come disse amaramente un funzionario del dipartimento di Stato, i venezuelani hanno deciso di espandere i vantaggi del fifty-fifty nell’area che faceva concorrenza alle loro vendite».[12]
L’Arabia Saudita, nel 1950, fu tra i primi Paesi a richiedere alle multinazionali del cartello di rivedere gli accordi e di adottare la formula contrattuale del 50 e 50. In un primo momento la società-consorzio ARAMCO rifiutò l’idea di ritrattare i termini delle loro concessioni, ma il governo degli Stati Uniti era favorevole all’idea che il governo dell’Arabia Saudita ottenesse maggiori introiti dall’industria petrolifera. Questa presa di posizione del governo statunitense nei confronti delle multinazionali, era giustificata dal fatto che esso pensava che accettare le rivendicazioni degli arabi equivaleva a evitare i conflitti politici legati alla questione del petrolio. Dunque era necessario mantenere la stabilità politica nei Paesi produttori di quell’area, in maniera tale da conservare al potere governi filo-occidentali, ed evitare in tal modo di compromettere l’accesso diretto al petrolio mediorientale.
Dopo l’accordo concluso tra ARAMCO e il governo saudita nel dicembre 1950, il principio del 50 e 50 venne introdotto nel Kuwait, dopo che il governo di questo Paese pretese la revisione dei suoi accordi con la GULF OIL; in Iraq il sistema “fifty-fifty” venne introdotto nel 1952.[13]
L’accordo concluso da Paul Getty dimostrò due cose: a) se un produttore indipendente come Getty poteva offrire di più, allora anche i consorzi controllati dalle multinazionali del petrolio potevano offrire condizioni migliori ai Paesi produttori. Inoltre i vantaggi offerti da Getty al governo saudita fecero aprire gli occhi agli arabi, e cioè si resero conto di quanto fossero stati svantaggiosi e perfino umilianti i loro contratti con le major, tanto da spingere i governi arabi a richiedere l’introduzione del principio del 50 e 50; b) il successo ottenuto da Getty in Medio Oriente dimostrò agli altri operatori del settore, che non appartenevano al club delle sette grandi, che essi, se fossero stati disponibili ad offrire di più ai governi dei Paesi produttori, potevano guadagnarsi il loro spazio nel mercato petrolifero mediorientale.
La sfida di Paul Getty alle multinazionali del petrolio, venne replicata otto anni dopo dal presidente della compagnia petrolifera di Stato italiana, Enrico Mattei. Di ciò se ne parlerà nella seconda parte di questo saggio.
La sfida di Enrico Mattei alle sette sorelle
L’Italia e la Crisi di Abadan (o Crisi Anglo-Iraniana)
La produzione petrolifera dell’Iran era controllata fin dagli inizi del XX secolo dal Regno Unito attraverso la società Anglo Persian Oil Company (APOC), che divenne Anglo Iranian Oil Company (AIOC) quando la Persia nel 1935 venne rinominata Iran, e negli anni Cinquanta, infine, la compagnia prese il nome di British Petroleum (BP). È fondamentale capire come sia nata questa società e come il governo inglese di allora ne acquisì il controllo, ottenendo di conseguenza la produzione petrolifera in Iran.
L’APOC venne fondata nel 1908 dopo che William Knox d’Arcy, un importante uomo d’affari britannico, ottenne una concessione della durata di sessant’anni per cercare, produrre e sfruttare il petrolio sull’intera estensione dell’Impero persiano, fatta eccezione per cinque provincie a nord del Paese. L’iniziativa della APOC venne appoggiata dal governo britannico, anche se questo non si sentiva sicuro di lasciare totalmente nelle mani di una società privata la grande concessione di sfruttamento, soprattutto perché la Persia a quel tempo era esposta alle mire espansionistiche delle altre potenze, in particolare della Russia. Infatti il confronto tra Russia e Regno Unito per il controllo dell’Asia centrale era in pieno svolgimento quando nacque l’impresa di William Knox d’Arcy, facendo dei russi i più pericolosi avversari degli inglesi per quanto riguardava il controllo del petrolio persiano. Leonardo Maugeri spiega:
Pur avendo sostenuto l’iniziativa della Anglo-Persian Oil Company, il governo britannico non si sente sollevato al pensiero che il petrolio persiano […] sia nelle mani di una società privata, anche se nazionale, soprattutto perché la Persia è assai vulnerabile alle mire di penetrazione di potenze straniere concorrenti. In realtà, il controllo dell’intera Asia centrale è la posta in palio di un confronto quasi secolare tra Gran Bretagna e Russia, ciascuna delle quali considera la regione un tassello fondamentale della propria sicurezza. Per il Regno Unito, l’Asia centrale è la conchiglia che fa da scudo alla perla dell’impero, l’India. Per la Russia, invece, essa è il ventre molle del suo immenso territorio, il luogo le cui praterie aperte sono storicamente servite come vie dirette per la conquista da parte degli invasori mongoli, ma anche la porta attraverso cui l’islam può penetrare nel cuore dell’impero degli Zar. Passato alla storia come the great game, espressione resa popolare da Rudyard Kipling con il romanzo Kim (1901), il confronto anglo-russo per il dominio sull’Asia centrale è in pieno corso quando l’impresa di D’Arcy prende forma, facendo dei russi i più temibili concorrenti alla successione del controllo britannico sul petrolio persiano.[14]
Dunque, per tutelare gli interessi petroliferi della Gran Bretagna in Persia, il governo inglese avrebbe dovuto acquisire una quota maggioritaria della APOC, che le avrebbe permesso così di controllare, non solo la società, ma anche l’importante concessione. A fare pressioni sul governo inglese affinché si facesse questo fu Winston Churchill, che all’epoca era il Primo Lord dell’ammiragliato della marina britannica. Churchill aveva compreso quanto fosse importante il petrolio per poter muovere, non solo le navi della marina militare, ma l’intera macchina bellica del Paese in vista di un prossimo conflitto. Churchill, sin dal 1911, insisteva nel convertire il sistema di propulsione della marina militare dal carbone al petrolio, dato che quest’ultima era una fonte di energia assai più efficiente della prima. Quindi, a tale scopo, si rendeva necessario per il Regno Unito avere una fonte sicura di approvvigionamento di petrolio, fonte che non aveva né sul proprio territorio nazionale né sulle sue colonie; di conseguenza era necessario, secondo Churchill, acquisire il controllo della APOC per acquisire in tal modo il controllo del petrolio persiano, e dare alla Gran Bretagna una fonte sicura di rifornimento. Per convincere il governo inglese a mettere in atto questa operazione, nel 1913 pronunciò un discorso di fronte al parlamento, in cui cercò di far comprendere quanto fosse importante questa risorsa:
Se non riusciamo ad avere petrolio, non riusciremo neanche ad avere granturco, non riusciremo ad avere cotone e non riusciremo a disporre delle infinite risorse necessarie per il mantenimento delle energie economiche della Gran Bretagna.[15]
Il governo inglese decise di seguire il consiglio di Churchill e, appena si presentò l’occasione, acquisì il controllo della APOC: la società dal 1912 iniziò a versare in gravi condizioni economiche e nel 1914 era ormai sull’orlo della bancarotta. Per salvarla da tale situazione intervenne il governo inglese che acquistò il 51% della compagnia, permettendo in tal modo alla Gran Bretagna di avere il controllo sulla APOC e, di conseguenza, sulla produzione petrolifera iraniana.[16] Il Regno Unito ebbe così l’esclusivo controllo sul petrolio iraniano fino alla Crisi di Abadan, avvenuta negli anni Cinquanta.
La Crisi di Abadan fu un conflitto tra il Regno Unito e l’Iran che si svolse tra il 1951 e il 1954, a seguito della nazionalizzazione da parte del governo iraniano della AIOC (in questo momento storico la compagnia era così denominata) e delle raffinerie della città di Abadan. Con la nazionalizzazione dei beni della AIOC nacque la National Iranian Oil Company (NIOC), un ente di proprietà dello Stato che appunto espropriò i beni della AIOC. La nazionalizzazione venne imposta dal Primo Ministro iraniano, il nazionalista Mohammed Mossadeq, che aveva come obiettivo il recupero della sovranità sulla più importante risorsa del Paese, ovvero il petrolio, risorsa che era diventata il «simbolo dell’indipendenza nazionale».[17] Mohammed Mossadeq, per raggiungere tale obiettivo, era deciso a «espellere l’Anglo Iranian Oil Company per lasciare il pieno controllo del greggio alla National Iranian Oil Company».[18] Attraverso il controllo della produzione petrolifera, infatti, l’Iran avrebbe voluto liberarsi dall’influenza della Gran Bretagna che, attraverso la AIOC, sfruttava le risorse del Paese comportandosi come dei colonialisti dell’Ottocento. Infatti, i lavoratori iraniani della AIOC, lamentavano le condizioni disumane in cui essi erano tenuti a differenza dei loro colleghi britannici, che erano trattati meglio sotto ogni punto di vista. A questo proposito, è interessante il testo di un documento riportato da Leonardo Maugeri nel suo studio, che descrive le pessime condizioni in cui versavano i dipendenti iraniani:
Non esistevano giorni di vacanza, permessi per malattia, risarcimenti per infortunio. I lavoratori vivevano in una baraccopoli chiamata Kaghzabad, o paper city, priva di acqua corrente e di elettricità, per non parlare di lussi come frigoriferi o ventilatori. D’inverno la terra era allagata e diventava un lago piatto e malsano. D’estate andava peggio. Per il management di AIOC i lavoratori erano fuchi senza volto. Nella parte britannica di Abadan c’erano prati, cespugli di rose, campi da tennis, piscine, e circoli; a Kaghzabad non c’era niente – non una sala da tè, non dei bagni, non un solo albero. I vicoli sterrati erano depositi per topi.[19]
Le ragioni della nazionalizzazione del petrolio non risiedevano solamente nella rivendicazione di condizioni migliori per i lavoratori e nella revisione della spartizione degli utili (che era davvero iniqua per l’Iran), ma anche nella volontà di riappropriarsi di una risorsa che avrebbe permesso all’Iran di sottrarsi al dominio di fatto della Gran Bretagna. Maugeri spiega che
con il crescere della tensione, cambia anche il tenore delle rivendicazioni iraniane: ora non si tratta più di rivedere i termini della concessione ben si di liberarsi dall’invadenza di un paese straniero che per mezzo secolo ha controllato e piegato ai propri interessi ogni aspetto della vita del paese. Con questo obiettivo, nel 1949 un gruppo di membri del majlis (il parlamento iraniano) guidato da Mossadegh propose di nazionalizzare le attività di BP in Iran.[20]
Il Regno Unito rispose alla nazionalizzazione con una decisa attività diplomatica che portò in brevissimo tempo al boicottaggio mondiale del petrolio iraniano: infatti il governo inglese esercitò ogni pressione affinché nessuno acquistasse il greggio proveniente dall’Iran, e, inoltre, Londra denunciò l’Iran alla corte internazionale dell’Aja, ritenendo l’espropriazione dei beni della AIOC un atto illegittimo; bloccò i conti bancari iraniani presso le banche inglesi e addirittura riuscì a convincere anche gli Stati Uniti d’America a non acquistare il petrolio iraniano. In poco tempo la situazione economica dell’Iran giunse al collasso, e il primo ministro Mohammed Mossadeq si trovò in serie difficoltà.[21] A tutto questo Mossadeq cercò di reagire, rispondendo con l’espulsione dei tecnici inglesi da Abadan e chiudendo l’ambasciata inglese di Teheran, rompendo in tal modo ogni rapporto diplomatico con il Regno Unito. Data la difficile situazione che ormai si era creata con l’Iran, il Regno Unito si convinse che l’unico modo per porre fine al contrasto era un intervento di tipo militare che destituisse Mossadeq. Il governo inglese chiese fin da subito l’aiuto degli Stati Uniti per organizzare un golpe che portasse alla destituzione di Mossadeq, dato che esso non avrebbe potuto organizzarlo autonomamente a causa del fatto che, essendo ormai rotti i rapporti diplomatici tra Regno Unito e Iran, i servizi segreti britannici non avrebbero potuto rendere possibile una simile operazione. Inizialmente il governo degli Stati Uniti, presieduto da Harry Truman, scoraggiò un intervento di questo tipo, perché temeva che una operazione militare in Iran potesse offrire all’Unione Sovietica il pretesto per intervenire in difesa del Paese, in virtù di un accordo di amicizia russo-persiano stipulato tra i due Paesi nel 1921. L’amministrazione Truman, dunque, temeva che l’Unione Sovietica potesse approfittare della situazione in Iran, e, con il pretesto di un intervento in sua difesa, avrebbe potuto cogliere l’occasione per estendere la sua influenza politica nell’Iran e ottenere l’accesso al petrolio persiano. In un clima di Guerra Fredda, dare l’opportunità all’URSS di prendere il controllo del greggio iraniano, era un rischio che non si poteva correre.[22] I britannici, però, erano sempre più decisi a risolvere la questione con l’Iran destituendo Mossadeq con un colpo di stato, e trovarono l’appoggio degli Stati Uniti quando a Washington ci fu il cambio di amministrazione con Eisenhower, un’amministrazione che era impegnata a limitare tutte le possibili espansioni dell’Unione Sovietica con ogni mezzo. Stefano Beltrame, a questo proposito, scrive:
La preoccupazione dell’Amministrazione Eisenhower è quella di […] rintuzzare l’espansionismo sovietico ovunque nel mondo. […] Con l’elezione di Eisenhower, Washington finirà per accettare la richiesta britannica di organizzare congiuntamente un intervento clandestino per la rimozione di Mossadeq. […] Il 4 marzo a Washington, in ambito National Security Council, si discute di Iran alla presenza del Presidente Eisenhower e del Segretario di Stato Dulles. Secondo il resoconto della riunione: Le probabili conseguenze degli eventi degli ultimi giorni in Iran – ha concluso Mr. Dulles – potrebbero essere l’instaurazione di una dittatura sotto Mossadeq. Finché questi resta in vita non c’è grande pericolo, ma se egli dovesse essere assassinato o rimosso dal potere, un vuoto politico si potrebbe creare e i comunisti potrebbero facilmente prendere il sopravvento. Le conseguenze sarebbero molto serie. Il mondo libero sarebbe privato dell’accesso alle enormi risorse petrolifere iraniane e tali risorse passerebbero in mano dei russi che risolverebbero in tal modo ogni loro esigenza petrolifera. La cosa peggiore – ha evidenziato Mr. Dulles – è che se l’Iran soccombe ai comunisti non c’è dubbio che, subito dopo, altre aree del Medio Oriente, con il circa il 60% delle riserve petrolifere mondiali, cadrebbero sotto il controllo comunista.[23]
Gli Stati Uniti, dunque, aiutarono il governo inglese a organizzare il golpe con quelli che erano i due uomini di punta dell’amministrazione Eisenhower, ovvero John Dulles, segretario di Stato, e Allen Dulles, direttore della Central Intelligence Agency (CIA). John Dulles e Allen Dulles ebbero un ruolo importante nel piano che portò al rovesciamento di Mossadeq. Nell’agosto 1953 ebbe luogo in Iran quella che è passata alla storia come operazione Ajax, che come conseguenza portò alla destituzione e all’arresto di Mossadeq, e il rientro dello scià Mohammed Reza Pahlavi (governo filo-britannico).[24] Le conseguenze del colpo di stato in Iran, per quanto riguarda la questione del petrolio, furono che la Gran Bretagna cessò di controllare in esclusiva la produzione iraniana e gli Stati Uniti decisero che a gestire le riserve di greggio in Iran fosse un consorzio formato insieme alle altre grandi compagnie petrolifere, ovvero le sette sorelle; nacque così il consorzio per l’Iran. A spingere gli Stati Uniti a prendere una simile decisone, fu la mancanza di fiducia nei confronti degli inglesi che tendevano a sfruttare le risorse del Paese in maniera eccessiva, e per evitare in futuro un’altra crisi politica in Iran legata alla questione del petrolio, si decise che il governo inglese non avrebbe gestito in maniera esclusiva e autonoma il petrolio iraniano attraverso la AIOC (che ora diventa British Petroleum, ovvero BP) ma lo avrebbe fatto insieme alle altre compagnie, partecipando appunto al consorzio per l’Iran. Per comprendere meglio è utile riportare quanto spiega Maugeri sulle conseguenze della Crisi di Abadan:
tuttavia, la conseguenza più immediata della crisi iraniana riguarda la Gran Bretagna […]. Gli Stati Uniti hanno perso la fiducia nel loro alleato, disapprovando il suo approccio di stampo colonialista agli affari internazionali e temono che il controllo britannico del petrolio iraniano possa costituire una permanente fonte di instabilità per il paese. Perciò il dipartimento di stato USA promuove, nel 1954, la costituzione di un consorzio internazionale per la produzione, la raffinazione e la commercializzazione del petrolio iraniano.[25]
Il consorzio per l’Iran aveva dunque l’obbiettivo di tutelare la stabilità politica del Paese attraverso la tutela delle sue riserve petrolifere, che gli Stati Uniti ritenevano di fondamentale importanza non solo per essi ma per l’intero mondo occidentale. È quanto si evince dal testo di un documento della sicurezza nazionale degli USA:
gli interessi della sicurezza nazionale richiedono che le società petrolifere degli Stati Uniti partecipino a un consorzio internazionale per concludere un accordo con il governo dell’Iran, entro l’area dell’ex AIOC, per l’acquisto, la produzione e la raffinazione di petrolio, al fine di permettere la riattivazione della suddetta industria, e di fornire quindi al governo amico dell’Iran entrate consistenti che proteggano gli interessi del mondo occidentale nelle risorse petrolifere del Medio Oriente.[26]
La diplomazia italiana seguì con vivo interesse la Crisi di Abadan del 1951-1954. Nel momento in cui giunse la notizia che si andava costituendo il consorzio per l’Iran, che avrebbe gestito l’importante produzione petrolifera iraniana, la diplomazia italiana si attivò affinché anche l’Italia, attraverso un suo ente o gruppo industriale, entrasse a far parte con una quota di partecipazione nel consorzio per l’Iran. La diplomazia italiana sperava che il nostro Paese potesse essere ammesso, per via del fatto che, durante la crisi anglo-iraniana, l’Italia aveva rispettato l’embargo che la Gran Bretagna aveva posto sul petrolio iraniano, rifiutando di acquistare, attraverso l’AGIP, il greggio venduto dalla NIOC, considerato espropriato in maniera illegittima alla AIOC. Sia la diplomazia italiana e sia Mattei, inizialmente credettero che la fedeltà dimostrata alla Gran Bretagna durante la crisi anglo-iraniana potesse dare all’Italia una certa credibilità, e che la lealtà del nostro Paese verso il governo inglese sarebbe stata ricompensata con l’invito a partecipare alla spartizione del petrolio iraniano. Ma l’Italia non avrebbe mai potuto far parte del consorzio essenzialmente per due motivi: perché era debole da un punto di vista politico, e, non avendo peso sulle vicende internazionali, il Paese non sarebbe quindi riuscito a esercitare eventuali pressioni, attraverso un’azione diplomatica, che avrebbero potuto sortire quest’effetto; sia perché non c’erano aziende italiane tanto importanti quanto le società petrolifere anglo-americane che avrebbero potuto far parte di un’associazione destinata a controllare l’importante produzione petrolifera iraniana. Infatti l’ENI era appena nato (10 febbraio 1953), ed era una realtà industriale ancora troppo piccola, e una sua eventuale richiesta di entrare nel consorzio sarebbe stata certamente rifiutata. Questo Mattei lo sapeva bene, come dimostra una sua lettera scritta al diplomatico Vittorio Zoppi, Segretario Generale di Palazzo Chigi; quest’ultimo aveva chiesto sia al presidente della FIAT Vittorio Valletta, sia al presidente dell’ENI, di cercare di inserire l’Italia nel consorzio attraverso uno dei due più importanti gruppi industriali italiani.[27] Mattei, il primo febbraio 1954, rispose in tal modo alle richieste di Zoppi:
Il problema del nostro eventuale inserimento nella progettata compagnia per il commercio dei petroli persiani, secondo me, ha carattere essenzialmente politico. Anche se taluni governi sono ora rientrati formalmente dietro le quinte, è certo che essi, con una lunga e intensa azione diplomatica, hanno spianato la via affinché i grandi trust petroliferi – quasi ambasciatori economici dei rispettivi paesi – possano spiegare la loro potenza per perfezionare accordi che sono in massima più che maturi. Ma finora in questo giuoco noi siamo fuori. Cosicché io penso che qualsiasi domanda di inserimento di complessi italiani arriverebbe allo scoperto e sarebbe destinata a una pietosa fine. Credo pertanto che nessun ente responsabile – noi o la FIAT – potrebbe oggi esporsi alla leggera, al prevedibile insuccesso. La cosa, naturalmente, cambierebbe se l’opera della nostra diplomazia riuscisse a provocare una qualsiasi forma di invito o di incoraggiamento. Può essere certo che quel giorno noi sapremmo trovare gli agganci tecnici per accordare la tutela degli interessi italiani con il rispetto dei nostri accordi e dei riguardi personali con i gruppi petroliferi esteri.[28]
In assenza di documenti che possano dimostrare che Mattei successivamente abbia inoltrato una richiesta ufficiale per inserire l’ENI nel consorzio iraniano, è possibile ritenere che una richiesta in tal senso da parte sua non ci fu mai. Dunque, nel 1954, anno di costituzione del consorzio, l’azienda di Stato italiana rimase esclusa dalla spartizione del petrolio dell’Iran.
Ad ogni modo, le grandi compagnie non avrebbero potuto ammettere l’ENI al consorzio. Se lo avessero fatto avrebbero creato un precedente, e altri piccoli operatori del settore avrebbero preteso anch’essi di avere una quota di partecipazione.
Tuttavia, due anni dopo la costituzione del consorzio per l’Iran, e cioè nel 1956, si presentò all’ENI di Enrico Mattei l’opportunità di avere un accesso diretto al petrolio iraniano. Una opportunità che il manager italiano seppe cogliere.
Verso il contratto ENI-NIOC
La National Iranian Oil Company (NIOC), che sopravvisse alla Crisi di Abadan e al colpo di stato che riportò lo Scià Reza Pahlavi al potere in Iran, gestiva le aree non sfruttate o comunque non controllate dalle società petrolifere anglo-americane che facevano parte del consorzio per l’Iran. Lo Stato iraniano, nell’intento di ottenere rendite migliori dall’industria petrolifera, cercava partner diversi dalle società del cartello a cui poter proporre formule contrattuali ancora più vantaggiose del fifty-fifty concesso dalle major anglo-americane. L’accordo elaborato dai vertici della NIOC prevedeva la creazione di una società mista detenuta al 50% da un partner e dall’ente di Stato iraniano; royalties del 50% sulla produzione allo Stato e l’altro 50% rimanente restava di proprietà della società mista; il partner che avrebbe contratto l’accordo aveva il diritto di esportare la sua quota del 25% in petrolio. Il presidente della NIOC, Bayat, propose questo accordo ad alcune società private italiane attive nel settore petrolifero, tra cui la SUPOR di Andrea Porlezza e Nicolai Soubotian, e la STOI di Emanuele Floridia. La SUPOR non poté accettare l’accordo, dato che nel 1954, dopo una serie di vicende, andò in contro ad un fallimento. La NIOC allora avvicinò un’altra società, la STOI, a cui venne proposto di fondare una società mista italo-iraniana per la raffinazione e la commercializzazione del petrolio. La compagnia avrebbe dovuto essere chiamata “IRANCO”. Emanuele Floridia strinse inoltre buoni rapporti con i vertici della NIOC, tanto che questi consegnarono all’imprenditore italiano l’incarico di sottoporre all’attenzione di altre aziende italiane – che avessero l’interesse a partecipare con parità di condizioni alla ricerca e allo sfruttamento petrolifero in Iran ‑ lo stesso accordo che era stato proposto a lui. Emanuele Floridia volle girare la proposta d’accordo all’AGIP, che a sua volta venne inoltrata, tramite l’ingegner Carlo Zanmatti, al presidente dell’ENI.[29] Zanmatti, l’otto luglio 1956, scrisse una lettera a Mattei, nella quale l’ingegnere spiegava con precisione i termini dell’accordo proposto dalla NIOC. Di seguito il testo della lettera:
Il Dott. Floridia, testé ritornato dall’Iran dove avrebbe concluso un accordo STOI-NIOC per la costituzione di una società mista italo-iraniana (IRANCO) per la raffinazione ed il commercio del petrolio iraniano in Italia, ha avuto personalmente e confidenzialmente l’incarico dal Presidente della NIOC (praticamente l’ENI iraniana) di interpellare Enti o Gruppi italiani eventualmente interessati a partecipare a parità di condizioni con Enti iraniani ad una impresa di ricerca e sfruttamento petrolifero nell’Iran.
Detta impresa italo-iraniana dovrebbe essere basata sui seguenti criteri che in linea di massima sarebbero accettati dal Governo Iraniano:
1) Società con partecipazione al 50% di un gruppo o Ente Iraniano ed al 50% di un Ente o Gruppo italiano.
2) Alla società mista sarebbero accordati permessi di ricerca, da scegliere di comune accordo in tutto il territorio iraniano che il governo ha a sua disposizione (non impegnato dal “Consorzio”) in numero non eccedente a 12, dell’area di 20.000 Ha. ciascuno, per la durata di 5 anni rinnovabili in concessioni di 25 anni quando i permessi si saranno dimostrati industrialmente produttivi.
3) Royalties del 50% sulla produzione allo Stato, una volta coperte tutte le spese delle ricerche effettuate dalla Società mista. Il restante 50% resta di proprietà della Società ed il Gruppo italiano avrà il diritto di esportare la sua quota del 25% in petrolio.
4) La società mista non sarà gravata da particolari oneri fiscali oltre alle normali tasse sulle Società operanti nel paese ed ai normali canoni fissi annuali sui permessi di ricerca e sulle concessioni (canone per ettaro).
5) In sede di trattative per la definizione dell’accordo, il Governo Iraniano, data la speciale fisionomia della società mista, non sarà alieno dal concedere qualche facilitazione fiscale, doganale, ecc. giustificate dalle promozioni di attività per lo sviluppo economico del Paese.
Il Dott. Floridia ha segnalato la questione esclusivamente all’ENI e si impegna a non farne parola con alcun gruppo italiano per una durata di 15 giorni. Qualora l’ENI decidesse di interessarsi prontamente della cosa, il Dott. Floridia, come da preventive intese con il Presidente della NIOC, dovrebbe comunicare telegraficamente ad detto Presidente l’adesione di massima del Gruppo italiano ed in tal caso l’ENI (o il gruppo italiano indicato) riceverebbe un invito ufficiale ad inviare in Iran una missione per trattare e definire concretamente un regolare accordo.
Inoltre il Presidente della NIOC avrebbe incaricato il Dott. Floridia di interessare Gruppi italiani allo studio della possibilità di utilizzazione del gas naturale nell’Iran.
Il Governo Iraniano è molto interessato a questa questione ed esaminerebbe molto volentieri studi e progetti che in proposito gli fossero suggeriti, o proposti.[30]
Questo interessante documento, pubblicato nell’autorevole studio di Ilaria Tremolada, permette di demolire una delle tante convinzioni che sono legate alla vicenda di Enrico Mattei, ovvero quella che il manager italiano abbia ideato e proposto per primo ai Paesi produttori una formula contrattuale innovativa rispetto al fifty-fifty, che garantiva una rendita più alta del 25% e un coinvolgimento attivo per il Paese nell’industria petrolifera. Dunque quella che è passata alla storia come “formula Mattei”,[31] che alla luce di quanto detto andrebbe ribattezzata «formula NIOC»,[32] in realtà è un accordo la cui paternità appartiene all’ente di Stato iraniano e non all’ENI di Mattei.
Dunque, contrariamente a quanto riportato dalla letteratura più tradizionale sull’argomento, fu l’Iran a ideare una innovativa formula contrattuale, secondo la quale il governo chiedeva alle compagnie petrolifere occidentali di avere una ripartizione degli utili a suo favore (il 75%) e, in più, di essere coinvolti nella produzione e nella gestione del petrolio, amministrando a parità di condizioni una società mista. Dato che le multinazionali anglo-americane non volevano concedere i miglioramenti che il Paese produttore chiedeva, il governo iraniano cercò un interlocutore ideale, che potesse appunto essere disposto a concludere un accordo accettando i termini della formula 75/25. L’Iran trovò il suo interlocutore ideale nell’Italia, e in particolare nell’ENI di Mattei, che da parte sua aveva bisogno di una opportunità per entrare, tramite vie dirette, in un area del mondo ricca di petrolio, ovvero il Medio Oriente. Scrive Ilaria Tremolada:
Le major non concessero i miglioramenti che i paesi produttori chiedevano, spingendoli a cercare interlocutori disposti a dar loro ciò che le potenti compagnie anglo-americane non volevano concedere. Di questo desiderio l’Iran trasse spunto per ideare un nuovo sistema di ripartizione degli utili basato sulla collaborazione tra lo Stato e la società petrolifera. Ne nacque cioè il sistema che erroneamente è stato chiamato “Formula Mattei”. Il presidente dell’ENI ebbe dunque solamente il merito di avere prestato fiducia all’iniziativa iraniana attirando su di sé le numerose critiche che il contratto suscitò. Incurante delle pressioni che da più parti gli furono rivolte e convinto dell’enorme opportunità che l’accordo dava al suo paese, Mattei, che non ha il merito contrariamente a quanto fino ad oggi affermato, di avere ideato il contratto, ebbe però la sensibilità per capire che il nuovo modello incarnava l’idea di libertà ed emancipazione che muoveva il Medio Oriente.[33]
Nel 1957 l’ENI riuscì a fare il suo ingresso in Iran, grazie ad un accordo stipulato con l’ente di Stato iraniano, ossia la NIOC. Il 14 marzo venne firmato un accordo preliminare, che poi venne ufficializzato il 3 agosto. Il contratto prevedeva la creazione di una joint company (società mista)denominata Société Irano-Italienne des Pétroles (SIRIP), detenuta pariteticamente al 50% dall’ENI e dalla NIOC. La SIRIP avrebbe ceduto il 50% dei profitti in royalties allo Stato iraniano, e il restante 50% veniva diviso in maniera paritetica tra ENI e NIOC. Poiché la NIOC è un’azienda che appartiene allo Stato iraniano, la percentuale di utili percepita dal governo saliva al 75%.[34] L’ENI ottenne permessi di ricerca in tre zone difficili: la prima, una zona offshore, situata al largo di Bandar-e-Bushehr, era promettente ma per l’ENI si trattava di una vera e propria sfida dato che fino a quel momento l’azienda italiana non aveva mai effettuato ricerche sul mare; la seconda e terza zona si trovavano sulla terraferma, una nella regione montuosa degli Zagros, a circa 3.000 metri di altitudine, l’altra nella regione del Mekran, posta nella estrema periferia del Paese, e, inoltre, a grande distanza dagli altri punti operativi dell’AGIP. Le due zone sulla terraferma non si rivelarono molto produttive e si ottennero scarsi risultati, mentre nella zona in mare si ottennero risultati positivi, che permisero, a partire dal settembre 1962, l’entrata in produzione dei pozzi.[35]
Dopo che l’ENI, nel 1957, concluse degli accordi per la ricerca e lo sfruttamento del petrolio in Egitto[36] e Iran, Mattei fece sua la formula 75/25, proponendola ai governi di quei Paesi che erano interessati ad essere coinvolti nella produzione e nella gestione delle proprie risorse petrolifere. Infatti, quanto concluso da Mattei con il governo iraniano, venne esattamente replicato con il governo del Marocco (luglio 1958),[37] e con il governo della Tunisia (1960).[38]
Le conseguenze dell’accordo ENI-NIOC
L’accordo firmato dall’ENI con la iraniana NIOC nel 1957, destò preoccupazioni nelle major americane e in alcuni uffici che coordinano le agenzie di intelligence statunitensi. Essi iniziarono a produrre dei rapporti da sottoporre all’attenzione del governo americano, in cui venivano spiegate le possibili conseguenze che l’accordo concluso dall’ENI e dalla NIOC potevano avere sul piano politico. Il timore era che l’accordo potesse creare un precedente nel mercato petrolifero mondiale e spingere i Paesi produttori a chiedere la revisione degli accordi. In altri termini, la loro preoccupazione era quella che la diffusione nei Paesi produttori della formula 75/25 potesse mettere in dubbio gli accordi stabiliti dalle grandi società sulla base della formula del fifty-fifty. In un documento si può leggere:
Quasi certamente la conseguenza [dell’accordo NIOC-AGIP, n.d.a.] è che vi saranno richieste nel Medio Oriente perché gli attuali accordi siano rivisti. Se la concessione italiana dovesse dimostrare di avere successo, tali pressioni diventeranno progressivamente difficili da sostenere. E l’apertura di questo affare può facilmente contribuire all’instabilità della posizione occidentale nell’area. (…) Ciononostante, alcuni osservatori ancora dubitano della capacità tecnica dell’ENI. Non ci si aspetta che il capitale sia un problema. Si riferisce, ed è probabilmente vero, che l’ENI impegnerà solo il 5% circa del suo bilancio annuale di ricerca per la concessione iraniana (…) Presumibilmente, Mattei sta tentando di forzare la sua strada nella produzione petrolifera del Medio Oriente o attraverso nuove concessioni o con la partecipazione alle compagnie esistenti. Egli probabilmente ha l’appoggio del governo per i suoi tentativi (…).[39]
Anche l’ambasciata americana a Roma vedeva negli accordi tra l’ENI e l’Iran la stessa potenziale minaccia:
Scriveva Zellerbach a John Foster Dulles, nei giorni della firma dell’accordo SIRIP, che esso avrebbe messo in discussione i contratti fra le grandi compagnie petrolifere e i paesi produttori, reso forse vani gli sforzi per la pace degli Stai Uniti e dell’ONU in Medio Oriente, rafforzato i nazionalismi nell’area, peggiorato le relazioni fra gli Stati Uniti e l’Italia, il cui governo sarebbe stato ritenuto irresponsabilmente opportunista, non conscio delle sue responsabilità internazionali.[40]
Nel settembre 1957 l’Office for Coordinating Boarding (OCB), elaborò un documento in cui si sosteneva che Mattei, forse, stava sfidando di proposito le politiche delle multinazionali del petrolio in Medio Oriente per avere una sorta di potere contrattuale da poter usare per essere ammesso nei grandi consorzi che controllavano le aree più produttive del Medio Oriente. Dunque si aveva il sospetto che le attività commerciali estere dell’ENI volute dal manager italiano potessero avere l’obiettivo di destare la preoccupazione e l’attenzione delle major, in maniera tale da spingere queste, che temevano le potenziali conseguenze politiche nei Paesi mediorientali provocate dall’applicazione della formula 75/25, a concedere all’ENI una quota di partecipazione nei grandi consorzi, in cambio di una rinuncia, da parte dell’ENI, di continuare la sua politica di sfida nei confronti delle major. Di seguito il testo del documento:
[…] Mattei sta proponendo ovunque una sfida alle politiche degli Stati Uniti e alle compagnie petrolifere degli Stati Uniti (…) Egli ha fatto capire che potrebbe abbandonare questi ulteriori accordi se ammesso come partner nel consorzio iraniano e nell’ARAMCO in Arabia Saudita.[41]
I documenti vennero sottoposti all’attenzione di Dulles e Eisenhower, affinché il governo degli Stati Uniti prendesse provvedimenti per cercare di frenare le attività di Mattei e costringerlo a rispettare le regole del mercato petrolifero imposte dalle grandi compagnie. Tuttavia,
né Dulles né Eisenhower accettarono l’impostazione radicale e drammatica del problema petrolifero che da più parti dell’amministrazione veniva loro consegnata. Il memorandum della riunione del 23 settembre dimostra che essi liquidarono velocemente e in modo prosaico la questione. Dulles affermò di non essere allarmato; a suo parere non c’era niente di sacro a proposito della formula 50-50, e essa non rientrava certamente nella politica del governo. Allo stesso modo Eisenhower respinse ogni richiesta di intervento contro Mattei, sostenendo che quanto fatto dal petroliere italiano rientrava in quella libera concorrenza che costituiva il credo degli Stati Uniti. Ribattendo tutti i timori sull’azione petrolifera di Mattei e inibendo ogni controffensiva, i massimi responsabili della politica americana chiudevano così la porta alle grandi compagnie e alle loro rivendicazioni.[42]
Anche il governo inglese prese in esame la politica estera dell’ENI di Mattei, dato che questo aveva il timore che l’azienda di Stato italiana potesse giocare un ruolo destabilizzante in Medio Oriente. A questo proposito, Leonardo Maugeri scrive:
[…] Il governo britannico […] dopo aver esaminato il rapporto di Shell e Bp sulla società italiana e sul suo capo, esprime una posizione sostanzialmente simile a quella di Eisenhower, bollando l’Eni di Mattei come una “tigre di carta”, troppo piccola e finanziariamente debole per minacciare seriamente gli interessi delle grandi multinazionali occidentali in Medio Oriente. L’argomento è sostenuto da Shell e Bp con dati alla mano: nel 1961 ENI produce circa 35.000 barili al giorno di petrolio, mentre EXXON raggiunge i 2 milioni e le altre “sorelle” sono tutte sopra 1 milione. ENI è superata persino da una piccola società americana (la Skelly Oil, che produce 60.000 bg), e all’estero ha meno di trenta pozzi produttivi, per altro di dimensioni insignificanti. Il parere delle grandi società petrolifere è che Mattei stia semplicemente cercando un posto al sole – una quota nell’Iranian Consortium, o qualcosa del genere. Ma non ha niente da offrire in cambio.[43]
Conclusioni
Enrico Mattei e Paul Getty riuscirono entrambi a guadagnare un proprio spazio nel Medio Oriente mettendo in atto la stessa strategia: non potendo far parte dei grandi consorzi che controllavano la produzione petrolifera mediorientale, conclusero accordi con i Paesi produttori utilizzando formule contrattuali di rottura.
Paul Getty, otto anni prima di Mattei, riuscì con successo a scavalcare il cartello delle sette sorelle, ottenendo l’importante concessione nella Zona Neutra dell’Arabia Saudita, offrendo al governo condizioni decisamente più vantaggiose rispetto a quanto veniva concesso dalle sette major anglo-americane. Getty, dunque, “giocando al rialzo”, riuscì a fare il suo ingresso in Medio Oriente, e non solo; la ricca concessione ottenuta dal governo saudita permise al tycoon di guadagnare una certa credibilità, tanto che, nel 1954, riuscì ad essere ammesso al consorzio iraniano.[44] L’affare concluso dal petroliere americano fu un importante insegnamento per gli operatori del settore che non appartenevano al club dei sette grandi. Getty aveva dimostrato che se si era disposti a pagare di più era possibile conquistare un proprio spazio nel mercato petrolifero mediorientale. L’esempio di Getty venne seguito pedissequamente dal presidente dell’ENI, Enrico Mattei.
Il manager italiano, determinato anche lui a far entrare l’ENI in Medio Oriente, decise di accettare la proposta del governo iraniano, che, tramite il suo ente di Stato (la NIOC), aveva offerto all’ENI l’opportunità di ottenere delle concessioni di ricerca in Iran, in cambio della disponibilità dell’azienda italiana di accettare i termini dell’innovativa formula contrattuale 75/25. Tale accordo prevedeva che il governo dell’Iran avrebbe ricevuto, complessivamente, il 75% degli utili, e, in più, avrebbe gestito a parità di condizioni con l’ENI una società mista. La presenza di ENI in Iran divenne realtà, quando tra il marzo e l’agosto del 1957 venne firmato l’accordo ENI-NIOC.
Mattei, come Paul Getty, a sua volta fece da esempio a coloro che per avere una concessione in Iran dovevano essere disposti ad offrire di più al governo del Paese. L’anno successivo all’accordo ENI-NIOC, e cioè nel 1958, la Standard Oil of Indiana, una compagnia petrolifera americana, concluse un accordo con il governo dell’Iran utilizzando la formula 75/25.
IPAC Agreement. This Agreement was negotiated and concluded between NIOC and the Pan American Petroleum Corporation (owned by the Standard Oil Company of Indiana) in conformity with the bidding procedures as envisaged in the Petroleum Act. Although the vehicle chosen was the joint structure type operator, the major clauses were similar to those embodied in the SIRIP Agreement, with some innovations. In general, the agreement was a better-organized and more lucid document. The area under the Agreement was fixed at sixteen thousand square kilometers of the continental shelf in the Persian Gulf. The entity that was formed, the Iran Pan American Oil Company (IPAC) merely acted as an agent of its principals, except that in carrying out and performing the exploration obligations of the Second Party, IPAC acted as the agent of Pan American Petroleum Corporation.Under this agreement Pan American not only undertook by the standards of the day, a very significant exploration obligation amounting to a minimum of $82 million, but it also offered to pay a large signature bonus of $25 million.[45]
Enrico Mattei e Paul Getty, inoltre, rappresentarono la stessa minaccia per il cartello delle sette sorelle. Entrambi i capitani di industria, concludendo affari con i governi dei Paesi produttori con nuovi sistemi di ripartizione degli utili, crearono dei pericolosi precedenti nel mercato mediorientale. L’affare concluso da Getty con il governo saudita tra il 1948 e il 1949, contribuì a diffondere nel Medio Oriente il principio del “fifty-fifty”, una ripartizione degli utili che era stata adottata nel mercato petrolifero venezuelano. Getty aveva dimostrato ai governi dei Paesi mediorientali che anche le major anglo-americane potevano pagare molto di più, e, di conseguenza, il governo dell’Arabia Saudita, del Kuwait e dell’Iraq pretesero dalle società del cartello una ripartizione degli utili più equa. Dal 1950 venne adottato in tutto il Medio Oriente il principio del 50 e 50.
L’ENI di Enrico Mattei non rappresentò una concreta minaccia agli interessi delle grandi compagnie dal punto di vista commerciale, dato che l’azienda di Stato italiana, se paragonata alle major, era troppo piccola e debole. Tuttavia, Mattei costituì motivo di grande preoccupazione per il cartello delle sette sorelle, dato che quanto fatto dal manager italiano in Iran rappresentò una seria minaccia ai loro interessi in Medio Oriente dal punto di vista politico. Le compagnie anglo-americane, infatti, temevano che l’ENI, con la conclusione dell’accordo con la NIOC, potesse creare un pericoloso precedente, e cioè che l’introduzione di una nuova formula contrattuale (in questo caso la formula 75/25) potesse spingere gli altri Paesi produttori a rivedere i contratti conclusi secondo il principio del 50 e 50.
Enrico Mattei e Paul Getty hanno incarnato la stessa figura imprenditoriale, ovvero quella del newcomer (nuovo arrivato). In un mercato petrolifero controllato quasi esclusivamente dalle sette più grandi compagnie – quale era appunto il mercato mediorientale – i nuovi arrivati potevano conquistare i propri spazi solo se erano disposti a “giocare al rialzo”. Getty ben prima di Mattei ruppe il monopolio del cartello delle sette sorelle, proponendo una ripartizione degli utili mai vista prima dai governi mediorientali. L’esempio del petroliere americano venne seguito da Mattei. Anch’egli fece il suo ingresso in Iran, e cioè in Medio Oriente, concludendo con il governo del Paese un accordo con una formula contrattuale di rottura rispetto al “fifty-fifty”, concedendo al produttore il 75% degli utili.
[1] Su Enrico Mattei, e sull’ENI durante la dirigenza Mattei, sono stati pubblicati numerosi studi. Molti di questi, però, sono delle biografie romanzate a carattere divulgativo di scarso valore scientifico, in quanto per la ricostruzione dei fatti storici non si avvalgono delle fonti primarie, cioè quelle di archivio. Dunque qui si ritiene opportuno e conveniente indicare solo gli studi storici su Mattei e sull’ENI che hanno una solida base scientifica, ovvero le fonti primarie. Questi studi sono: MATILDE ATENEO, Neo-atlantismo e «apertura a sinistra». Nei report del Foreign office (1953-1962), Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2015; BRUNA BAGNATO, Prove di Ostpolitik. Politica ed economia nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica (1958-1963), Firenze, Olschki, 2003 pp. 335-428; BRUNA BAGNATO, Petrolio e politica. Mattei in Marocco, Firenze, Polistampa, 2004; http://www.academia.edu, MASSIMO BUCARELLI, All’origine della politica energetica dell’ENI in Iran: Enrico Mattei e i negoziati per gli accordi petroliferi del 1957;i saggi di Matteo Pizzigallo e Georg Meyr contenuti in MASSIMO DE LEONARDIS (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2003; il saggio di Ilaria Tremolada contenuto in DAVIDE GUARNIERI (a cura di), Enrico Mattei. Il comandante partigiano, l’uomo politico, il manager di stato, Pisa, BFS Edizioni, 2007; LEONARDO MAUGERI, L’arma del petrolio: questione petrolifera globale, guerra fredda e politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Firenze, Loggia De’ Lanzi, 1994; DANIELE POZZI, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe: tecnologia, conoscenza e organizzazione nell’AGIP e nell’ENI di Enrico Mattei, Venezia, Marsilio, 2009; ALBERTO TONINI, Il sogno proibito: Mattei, il petrolio arabo e le sette sorelle, Firenze, Polistampa, 2003; ILARIA TREMOLADA, La via italiana al petrolio: l’ENI di Enrico Mattei in Iran (1951-1958), Milano, L’Ornitorinco, 2011; ILARIA TREMOLADA, Nel mare che ci unisce. Il petrolio nelle relazioni tra Italia e Libia, Milano, Mimesis, 2015.
[2] Jean Paul Getty è stato un imprenditore statunitense. Nacque il 15 dicembre del 1892 a Minneapolis, Stati Uniti, da George F. Getty e Sarah Getty, e morì a Londra il 6 giugno 1976. Suo padre George era un valente avvocato, ma, in seguito a diverse vicende, divenne un industriale del petrolio, entrando nel settore in seguito all’acquisto di un campo petrolifero in Oklahoma. Da questo primo investimento iniziarono le fortune della famiglia Getty e del giovane Paul, che nel 1942 fonderà la Getty Oil Company. Con le sue attività imprenditoriali, Paul Getty accumulò un patrimonio stimato in più di un miliardo di dollari. (Per la vicenda umana e imprenditoriale di Paul Getty, si veda JEAN PAUL GETTY, Secondo me. La mia vita, il mio denaro, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1977).
[3] Per la fondazione dell’AGIP, nonché per la storia dell’azienda di Stato italiana durante gli anni del regime fascista e della Seconda guerra mondiale, si veda: MATTEO PIZZIGALLO, alle origini della politica petrolifera italiana (1920-1925), Milano, Giuffrè Editore, 1981; MATTEO PIZZIGALLO, L’Agip degli anni ruggenti (1926 – 1932), Milano, Giuffrè Editore, 1984; MATTEO PIZZIGALLO, La politica estera dell’Agip (1933 – 1940), Milano, Giuffrè Editore, 1992; MANLIO MAGINI, L’Italia e il petrolio tra storia e cronologia, Milano, Edizioni Mondadori, 1976, pp. 25-84.
[4] ANTHONY SAMPSON, Le sette sorelle. Le grandi compagnie petrolifere e il mondo che hanno creato, Milano, Mondadori, 1976, pp. 90-103; 106-110; 159-191. Per la storia dell’industria petrolifera e la nascita del cartello delle sette sorelle si vedano anche LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio. Mitologia, storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, Milano, Feltrinelli, 2006 e DANIEL YERGIN, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1996.
[5] Nell’industria petrolifera, il termine “operatore indipendente” sta a indicare «qualsiasi società che non sia compresa tra le sette maggiori: vale a dire qualsiasi compagnia che sia priva di un sistema globale di produzione, trasporto, raffineria e marketing». (ANTHONY SAMPSON, op. cit., p. 196).
[6] DANIEL YERGIN, op. cit., p. 374.
[7] Cfr. ivi, pp. 374-379.
[8] JEAN PAUL GETTY, op. cit., pp. 232-233.
[9] Magnate dell’economia e dell’industria, grande proprietario o dirigente industriale.
[10] DANIEL YERGIN, op. cit., pp. 379-380.
[11] Cfr. ivi, pp. 369-374.
[12] Ivi, p. 381.
[13] Cfr. ivi, pp. 380-383.
[14] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., p. 46.
[15] Ivi, p. 47.
[16] Cfr. ibidem.
[17] MARCELLA EMILIANI, Medio Oriente: Una storia dal 1918 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 312.
[18] Ivi, p. 313.
[19] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., p. 88.
[20] Ivi, p. 89.
[21] Cfr. MARCELLA EMILIANI, op. cit., p. 313.
[22] Cfr. LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., pp. 90-91.
[23] STEFANO BELTRAME, Mossadeq. L’Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della rivoluzione islamica, Catanzaro, Rubbettino, 2009, pp. 194-195.
[24] Per l’operazione Ajax cfr. MARCELLA EMILIANI, op. cit., pp. 314-316.
[25] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., p. 94.
[26] Ivi, p. 98.
[27] Cfr. ILARIA TREMOLADA, La via italiana al petrolio: l’ENI di Enrico Mattei in Iran (1951-1958), op. cit., pp. 108-134.
[28] Ivi, pp. 134-135. La lettera che Mattei scrisse a Zoppi, pubblicata da Ilaria Tremolada nel suo studio, mette fortemente in dubbio l’episodio dello “schiaffo iraniano”, ossia il fatto che Mattei, avendo chiesto alle compagnie anglo-americane di essere ammesso al consorzio per l’Iran, al fine di tutelare gli interessi italiani per quanto concerne l’approvvigionamento delle fonti di energia, avrebbe ricevuto un umiliante rifiuto da parte delle major, che con prepotenza avrebbero escluso l’ENI dalla spartizione del petrolio iraniano. Da tale rifiuto sarebbe nata l’ostilità di Mattei verso le sette sorelle e non solo; Mattei, volendo reagire all’umiliante esclusione, decise di mettere in atto un’aggressiva politica estera volta a stabilire accordi commerciali con i Paesi produttori, proponendo ad essi formule contrattuali che garantissero condizioni migliori. Per molto tempo questa è stata la versione dei fatti tramandata dalla gran parte dei biografi che si sono occupati di studiare la vicenda di Enrico Mattei. A tramandare questa versione dei fatti (tra l’altro senza citare fonti attendibili) e ad attribuire al presunto rifiuto le ragioni della politica estera dell’ENI sono: GIUSEPPE ACCORINTI, Quando Mattei era l’impresa energetica. Io c’ero, Matelica, Halley, 2006, p. 87; LUIGI BAZZOLI, RICCARDO RENZI, Il miracolo Mattei, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 175-176; PAUL H. FRANKEL, Petrolio e potere: Enrico Mattei, Firenze, La nuova Italia, 1970, p. 96; CARLO MARIA LOMARTIRE, Mattei. Storia dell’italiano che sfidò i signori del petrolio, Milano, Le Scie Mondadori, 2004, pp. 195-197; MANLIO MAGINI, op. cit., p. 130; ALBERTO MARINO, Enrico Mattei deve morire! Il sogno senza risveglio di un paese libero, Roma, Castelvecchi, 2014, p. 42; ITALO PIETRA, Mattei, la pecora nera, Milano, Sugarco, 1987, pp. 103-104; DANIEL YERGIN, op. cit., p. 426.
[29] Cfr. ILARIA TREMOLADA, La politica petrolifera italiana in Iran:1951-1957 in DAVIDE GUARNIERI (a cura di), op. cit., pp. 67-84.
[30] Ivi, pp. 85-86.
[31] La formula contrattuale elaborata dalla NIOC è passata alla storia come “formula Mattei” a causa dei biografi che ne hanno attribuito al presidente dell’ENI la paternità. Volendo ricordare solo alcuni tra i biografi più noti di Mattei, hanno attribuito la paternità della formula 75/25 al fondatore dell’ENI GIUSEPPE ACCORINTI, op. cit., p. 87 e pp. 104-105; LUIGI BAZZOLI, RICCARDO RENZI, op. cit., pp. 189-192; BENITO LI VIGNI, Enrico Mattei. L’uomo del futuro che inventò la rinascita italiana, Roma, Editori Riuniti, 2014, p. 140; CARLO MARIA LOMARTIRE, op. cit., p. 244; RAFFAELE MORINI, Mattei. Il partigiano che sfidò le sette sorelle, Milano, Mursia, 2011, pp. 168-171; NICO PERRONE, Enrico Mattei, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 78-79. È probabile che anche gli atteggiamenti autocelebrativi di Mattei abbiano contribuito a consolidare la convinzione che la paternità della formula fosse dell’ENI. Mattei durante un’intervista televisiva alla RAI del 12 aprile 1961, parlando della formula 75/25, lasciò intendere che questa fosse dell’ENI: «[…] Vede, l’ENI ha iniziato una nuova formula, che è quella di pagare i diritti che pagano gli altri e in più di interessare il Paese produttore al 50% nello sviluppo delle proprie risorse […]» (ENRICO MATTEI, Scritti e discorsi, Milano, Rizzoli, 2012, p. 776). È interessante notare che, nonostante lo studio di Ilaria Tremolada sia stato pubblicato per la prima volta nel 2007, e poi nuovamente nel 2011, alcuni studiosi, le cui pubblicazioni sono posteriori allo studio della Tremolada, commettono ancora l’errore di attribuire a Mattei la paternità della formula 75/25. È il caso, per fare alcuni esempi, di Alberto Marino, che nel suo libro scrive: «il piano presentato da Mattei alle autorità di Teheran era sicuramente innovativo e andava a infrangere la formula tradizionale del fifty-fifty del cartello delle sette sorelle […]» (ALBERTO MARINO, op. cit., p. 23). Anche Marco Valerio Solia attribuisce la paternità della formula all’ENI di Mattei (Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, Mattei, obiettivo Egitto. L’ENI, il Cairo, Le sette sorelle, Roma, Armando editore, 2016,pp. 86-93).
[32] http://www.academia.edu, MASSIMO BUCARELLI, All’origine della politica energetica dell’ENI in Iran: Enrico Mattei e i negoziati per gli accordi petroliferi del 1957, p. 3.
[33] ILARIA TREMOLADA, op. cit., in DAVIDE GUARNIERI (a cura di), op. cit., p. 90.
[34] Cfr. ILARIA TREMOLADA, La via italiana al petrolio, op. cit., pp. 189-281.
[35] Cfr. DANIELE POZZI, op. cit., pp. 422-423.
[36] Per quanto riguarda gli accordi tra l’ENI e l’Egitto cfr. MARCO VALERIO SOLIA, op. cit.; ALBERTO TONINI, Il sogno proibito, op. cit., pp. 57-100. Bisogna precisare che il Paese con il quale Mattei sperimentò la formula 75/25 fu l’Egitto di Nasser, e non l’Iran dello Scià Reza Pahlavi. A questo proposito, Claudio Moffa scrive: «La “formula ENI”, che ruppe il monopolio e la “legge di mercato” imposti dalle Sette Sorelle a tutti i paesi produttori, venne applicata per la prima volta non con l’Iran dello Scià, ma con l’Egitto di Nasser. Almeno tre ordini di considerazioni confortano tale affermazione. La prima è la cronologia secca dei due accordi con Il Cairo e con Teheran, rispettivamente siglati il 9 febbraio e il 3 agosto 1957, anche se la bozza iraniana era già stata sottoscritta il 14 marzo […]. La seconda considerazione riguarda la sostanziale analogia dei due accordi, almeno per quel che riguarda il “nocciolo duro” della formula ENI, vale a dire la compartecipazione del paese produttore all’impresa petrolifera. […] Del resto – e siamo alla terza considerazione – il primato egiziano era sancito dai documenti ufficiali dell’epoca […]» (www.academia.edu, CLAUDIO MOFFA, Dalla guerra di Suez all’attentato di Bascapè: l’ombra di Israele sul “caso Mattei”, p. 3). L’osservazione del prof. Moffa è corretta, ma va sottolineato che tale primato dell’Egitto ha contribuito a consolidare la convinzione, fra i diversi biografi di Mattei, che la paternità della formula 75/25 appartiene al presidente dell’ENI. Come si è visto, l’innovativa formula contrattuale è stata ideata dalla iraniana NIOC. Inoltre, i vertici dell’ente di Stato iraniano sottoposero la formula 75/25 all’attenzione dell’ENI già nel luglio del 1956.
[37] Cfr. BRUNA BAGNATO, Petrolio e politica, op. cit., p. 152.
[38] Cfr. MARCO VALERIO SOLIA, op. cit., p. 126; DANIELE POZZI, op. cit., pp. 433-434.
[39] LEONARDO MAUGERI, L’arma del petrolio, op. cit., pp. 154-155.
[40] GEORG MEYR, Enrico Mattei e la politica neoatlantica dell’Italia, nella percezione degli Stati Uniti d’America in MASSIMO DE LEONARDIS (a cura di), op. cit., p. 164.
[41] LEONARDO MAUGERI, L’arma del petrolio, op. cit., pp. 155-156.
[42] Ivi, p. 157.
[43] LEONARDO MAUGERI, L’era del petrolio, op. cit., p. 113.
[44] Cfr. ANTHONY SAMPSON, op. cit., p. 200.
[45] Encyclopaedia Iranica, OIL AGREEMENTS IN IRAN (1901-1978): their history and evolution (reperibile al seguente link: https://www.iranicaonline.org/articles/oil-agreements-in-iran).

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